La Norimberga della magistraturaLa pericolosa battaglia politica intorno al procedimento contro Palamara

Martedì al Csm inizia il processo disciplinare contro l’ex presidente dell'Anm, accusato di aver interferito sulle nomine delle toghe di aver screditato un collega. Una lista di 133 testimoni, ma che manca dei nomi più importanti, Pignatone e Ielo. Ma anche i garantisti devono capire che lo screditamento di un potere dello Stato è controproducente, serve un vero rinnovamento

Martedì 21 luglio inizia davanti alla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro dello stesso Csm.

Due sono gli addebiti mossi dal Procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi, ai sensi dell’art. 2 della Legge 109/2006: il primo di aver interferito nel processo di nomina del nuovo procuratore capo di Roma favorendo uno dei candidati, Marcello Viola (a sua insaputa) a scapito degli altri concorrenti (il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e quello di Palermo Francesco Lo Voi).

Il secondo di aver tentato, insieme con altri magistrati, alcuni dei quali membri del CSM, di screditare il procuratore aggiunto del suo ufficio Paolo Ielo, al cui posto aspirava.

Palamara ha presentato una lista di 133 testimoni, in pratica la storia e il potere della magistratura degli ultimi 20 anni.

Bisogna innanzitutto capire di che cosa si parla, evitando interessate confusioni.

Ad Annalisa Chirico che chiedeva se intendesse sputtanare la sua categoria che lo ha mollato quasi fosse un corpo estraneo, Palamara ha replicato che il suo intendimento è solo «ristabilire la verità», spiegare certi meccanismi, i compromessi, emendarsi agli occhi dei colleghi perbene rimasti al palo perché estranei ai torbidi meccanismi che egli intende rivelare.

Non sappiamo se intenda descrivere l’Anm degli ultimi anni come un’associazione illecita, di sicuro egli professa pentimento e desiderio di collaborare. 

Oltre  il perdono dei suoi ex colleghi onesti e della pubblica opinione, l’obiettivo di Palamara pare di capire che non escluda neanche un seggio in quota centrodestra nonostante in un’intercettazione insultava Mattero Salvini (ma ci tiene a precisare che bisogna esaminare il contesto) e in altre professava la sua entusiasta fede di sinistra.

Con lui si schierano vasti settori della politica e dell’informazione, insolitamente anche quella più garantista che non ha mai creduto per principio a un collaboratore di giustizia ma che per il pentito Palamara (pentito nel senso della resipiscenza) mette la mano sul fuoco e invoca una nuova Norimberga in piazza per «il partito dei magistrati».

Tutto comprensibile, ci mancherebbe altro dopo venti anni di strapotere delle toghe e di democrazia in libertà vigilata.

Il punto è che tra i 133 nomi ne mancano due che pure avrebbero dovuto esserci come parte integrante dell’affresco: Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, il vecchio procuratore e il suo sostituto di punta. Proprio loro che lui indica come la causa della sua rovina perché firmarono la relazione inviata alla procura di Perugia con le prove dei rapporti col lobbista Fabrizio Centofanti, ivi compresi una serie di benefit apparentemente a spese di Centofanti ma che lui giura di aver rimborsato. Vedremo, ma questo è il profilo penale (accusa di corruzione) che qui interessa poco.

Vediamo invece di capire i fatti oggetto del procedimento disciplinare, mettendoli in fila.

Partiamo dall’inspiegabile assenza nella Palamara’s list di personaggi fondamentali (nientemeno che i suoi accusatori) e in particolare il suo antagonista: Paolo Ielo.

Per dire, se quella lista preannuncia una nuova Norimberga è come immaginare il processo al regime nazista con gli alleati che si dimenticano di citare Hermann Goering, il numero due del regime. Neanche lontanamente immaginabile. Eppure Ielo (come Pignatone) manca e la cosa non sembra invero stupire molto la schiera dei sostenitori dell’ultima ora dell’ex presidente di Anm.

Paolo Ielo, 59 anni, messinese, è arrivato alla procura di Roma una decina di anni fa come semplice sostituto e ha bruciato le tappe diventandone uno degli uomini di punta, la testa di lancia. 

Grande preparazione tecnica che egli non manca mai di esibire, un’eccellente considerazione di sé stesso, poca pazienza con i contraddittori (solitamente non numerosissimi) a cui dispensa all’occorrenza robuste razioni di non richiesta arroganza, conduce una vita riservata perché, spiega, i pubblici ministeri nella sua concezione dovrebbero fare vita da «monaci guerrieri».

Al contrario del mondano e poli-relazionale Palamara, Ielo ostenta una vita appartata, non ha mai varcato la soglia di un circolo della capitale sotto braccio a qualche avvocato come erano soliti alcuni suoi predecessori, non ama Roma di cui diffida e che considera come un grande contenitore di varie centrali di corruzione ognuna coi suoi riferimenti e il suo giro. Ielo ci tiene a sottolineare che è diventato aggiunto senza essere iscritto ad alcuna corrente e senza fare una telefonata neanche a Palamara che infatti non lo cita tra i suoi beneficiati. E che non lo vuole in mezzo ai piedi neanche nelle aule dove si celebra il suo giudizio. Eppure nelle intercettazioni Palamara parla molto di Ielo. 

Quando, confidandosi all’Hotel Champagne con Luca Lotti, egli si immagina come stretto consigliere e suggeritore del nuovo procuratore romano Marcello Viola (estraneo alla manovra) è facile capire che il modello di paragone è il detestato Ielo: «Supponiamo che (in procura a Roma, ndr) c’è Viola e c’è Luca Palamara… crediamo a Scafarto o non gli crediamo? Se io vado a fare l’aggiunto questo gli dico al mio procuratore Viola che si consulta con me: “Gli vogliamo credere? Rompiamogli il culo. Non gli vogliamo credere? Si chiude, e fine”».)

Il riferimento è al processo Consip in cui Ielo aveva richiesto il rinvio a giudizio di Lotti, allora numero due della corrente renziana, nonostante le assicurazioni di segno contrario che, secondo Palamara, Pignatone avrebbe dato a tale, non meglio identificato “Matteo”.

Dopo aver ricevuto il fascicolo dal collega napoletano John Woodcock che aveva puntato nelle fasi iniziali l’entourage di Renzi, Ielo invece aveva incriminato il comandate del nucleo di polizia giudiziaria, il capitano del Nucleo operativo ecologico (NOE) dei carabinieri Giampaolo Scafarto per aver falsificato il contenuto di alcune intercettazioni (ipotesi bocciata dal riesame e dalla Cassazione) e infine aveva archiviato l’indagine nei confronti di Tiziano Renzi, ma rinviato a giudizio Lotti per un’ipotesi di favoreggiamento.

Da rilevare che a seguito di tale decisione e di un’indagine della procura romana sul cronista di punta del Fatto Marco Lillo per una fuga di notizie, il direttore del quotidiano Marco Travaglio (non esattamente un garantista quando gli indagati non sono i suoi cronisti o favoriti) ha iniziato una forte campagna demolitrice della gestione di Pignatone e dei suoi collaboratori. 

Per screditare Ielo e mandarlo a processo, secondo l’ipotesi di accusa formulata dalla Procura generale nel processo disciplinare,  Palamara e Lotti avrebbero affannosamente cercato le prove di indebiti vantaggi conseguiti dal fratello di Ielo, avvocato civilista, con una serie di consulenze ricevute da alcune aziende.

In tal senso avrebbero appoggiato un esposto presentato al CSM da un altro sostituto romano, Stefano Fava, indagato a Perugia, che lamentava un’iniziale mancata astensione di Ielo che poi aveva rinunciato in una vicenda di corruzione in cui egli sollecitava un arresto ”bloccato” dall’opposizione anche del capo dell’ufficio Pignatone e di un altro aggiunto Rodolfo Sabelli, già presidente ANM, subentrato a Ielo come supervisore del caso.

Tutto qui per adesso, di questo si parlerà in CSM nei prossimi giorni: vedremo gli sviluppi, ma i fatti sono questi, anche se ampiamente omessi da chi su questa vicenda sembra interessato ad operare il totale screditamento della magistratura. Ebbene questa è un’operazione politica molto pericolosa.

Uno dei limiti  del garantismo nel nostro paese è stato quello di illudersi che una giusta battaglia, condotta in condizioni di grave inferiorità degli avvocati, potesse affiancare ed utilizzare gli interessi della grande politica sotto indagine. Si è invece rivelato il contrario: il potere sotto indagine ha sfruttato a fini propri la battaglia sulle garanzie, dimenticandosi le riforme. Ma il garantismo non è un taxi, su cui salire e scendere dopo la corsa a destinazione. 

Da una totale e ingiusta demolizione delle istituzioni giudiziarie, anche se non vanno sottaciuti i gravi problemi etici e di struttura, il garantismo non ha nulla da guadagnare.

Occorre in questo momento autonomia e indipendenza di pensiero e non mancano, in politica, nelle professioni e nella stessa magistratura, le competenze e soprattuto le persone indipendenti.

In tal senso la magistratura potrà uscire dalla gravissima situazione attuale solo procedendo a un totale rinnovamento dei vertici associativi e delle correnti, e soprattutto aprendo le porte degli organismi decisionali e disciplinari al contributo delle professioni e delle competenze.

Dice bene John Henry Woodcock: «La giurisdizione è qualcosa che riguarda tutti, e non è “cosa nostra”. La questione delle nomine e delle carriere dovrebbe essere gestita da un organismo quanto più ampio e rappresentativo di tutte le realtà sociali, dagli avvocati ai collaboratori giudiziari, ai professori universitari fino – perché no – agli utenti. Proprio tutto il contrario di quella chiusura nella torre d’avorio auspicata dal ministro Bonafede e alla quale, forse per pigrizia mentale, tanti si allineano».

Se dal processo di Norimberga si arriverà a questo, per il paese sarà un balzo enorme e la crisi dell’ultimo anno avrà avuto un senso. In caso contrario la democrazia correrà rischi gravissimi.