Al fotografo Paul Fusco dobbiamo gli Stati Uniti al mattino, un’elegia visiva americana del lutto. I suoi scatti dell’ultimo viaggio di Bob Kennedy ovvero una quadricromia del dolore in un paesaggio fosforescente, la scia della storia si allontana salutando da un treno.
Scomparso nei giorni scorsi novantenne, protagonista dell’agenzia Magnum, di Fusco ricorderemo lo sguardo che cattura i volti e i colori del mondo dal finestrino di un treno che porta con sé corpo e insieme notizia dell’assassinio di Bob Kennedy, la storia ai bordi di un binario. Così facendo cattura l’addio alla storia, a una “speranza”, alle promesse infrante, alla giovinezza politica.
Di lui sappiamo che ha lavorato come fotoreporter nell’esercito degli Stati Uniti durante la guerra di Corea, 38° Parallelo Nord, dal 1951 al 1953, prima di studiare fotogiornalismo alla Ohio University, poi una laurea in Belle Arti nel 1957, New York City l’inizio della sua carriera professionale.
Il reportage del funerale di Kennedy resta il suo picco espressivo di luce. Fusco, tre macchine fotografiche e trenta pellicole a colori, è sul treno che trasporta il feretro di RFK: 328 chilometri di ferrovia nel pomeriggio dell’8 giugno 1968, sabato. La bara di Bob Kennedy lascia Penn Station, a New York, per arrivare alla Union Station di Washington. Il candidato democratico è stato assassinato due giorni prima a Los Angeles, mentre festeggiava la vittoria alle primarie della California.
Fusco raccontava che «nell’ultimo vagone i servizi segreti decisero di mettere la bara di Bobby, la appoggiarono per terra, poi dissero ai familiari e agli amici di prendere posto nella penultima carrozza. Erano loro ad aver preso il comando del treno e non volevano discussioni. Ma i ferrovieri pensarono che sarebbe stata un’offesa alla folla che attendeva e appena il convoglio cominciò a muoversi la sollevarono e la appoggiarono sugli schienali dei sedili. Così il feretro si poteva vedere attraverso i finestrini».
Era «un anticipo d’estate. Il viaggio durò più di otto ore attraverso cinque Stati: New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Maryland. Un milione di persone lungo i binari. Quel treno è stato il vero funerale, quello dell’America, è durato un’intera giornata».
Paul Fusco, quel giorno, ha scattato più di duemila foto.
«Non dovevo lavorare, ma vivevo a Manhattan e decisi di passare in redazione. Poi camminai veloce fino alla stazione. Trovai subito il treno, era circondato dagli uomini del secret service. Era un convoglio speciale: non ho mai capito se fosse stato organizzato dal governo o dalla famiglia. Mostro il tesserino e salgo, un agente mi mostra un sedile dell’ottavo vagone e mi dice: “Siediti qui e non ti muovere”. Non sapevo cosa fare, pensavo che a Washington e poi al cimitero di Arlington avremmo trovato decine di colleghi e di telecamere ad aspettarci, avevo bisogno di un’idea subito. Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari».
“Funeral Train” resta nella storia della fotografia come un monumento visivo all’America, meglio, all’altra America.
I rullini trattengono bambini, genitori con i neonati in braccio; pensionati, lo Stetson sul capo; coppie di ragazzi con gli abiti a fiori della festa, pattuglie di boy scout, veterani con le insegne dei corpi già d’appartenenza, donne in lutto, la moda, i capi, gli occhiali da sole, le magliette della fine degli anni Sessanta crepitano davanti allo sguardo, tra casacche hawaiane e camicette sottili, ci sono le suore di un collegio femminile, due ragazzi sono seduti sulle moto, ci sono i vigili del fuoco, e le famiglie sui tetti dei furgoni, un anziano ha con sé una sdraio, uomini in bilico su un palo, gli abiti giallo paglierino delle donne, le salopette degli operai.
Fusco dice a se stesso: «Dai, scatta, scatta!»
Su tutto, si innalza, come una dedica, un telegramma, di più, un biglietto d’addio, solo una frase: «So-long Bobby».
Si scoprono i cortili delle case, i sobborghi, le periferie abitate dagli afroamericani. Chi si mette la mano sul cuore, chi si tiene la testa tra le mani, chi si inginocchia, chi prega. Verso il tramonto, ecco una famiglia di sette persone disposta in ordine d’altezza e di età: stanno sull’attenti, il capo inclinato.
Le fotografie, una pellicola Kodachrome, talvolta sono mosse, mostrano la grana incerta e immateriale di ciò che corre via: la dissolvenza del “sogno americano”, sia detto senza retorica cinematografica.
«La mia immagine preferita è quella in cui si vedono un padre e un figlio su un ponticello di legno che salutano portandosi la mano alla fronte, dietro di loro la madre ha la mano al petto. Il giovane è a torso nudo, hanno i capelli arruffati. Quella è la foto simbolo dell’America dopo l’omicidio di Bobby: una famiglia povera, che combatte per sopravvivere e vedeva passare via la possibilità di una vita diversa. I Kennedy avevano dato speranza alla gente e ora quella gente vedeva tramontare il sogno. Se ne andava con quel treno, era chiuso in quella bara».
Fusco racconta di avere dovuto aspettare trent’anni per vederle stampate. «Era ormai il 1998, torno sconsolato nella sede di Magnum e mi fermo a parlare con una giovane ragazza che era appena stata presa come photo editor, le dico: “Cosa devo fare per vederlo pubblicato?”. Mentre lo sto per rimettere via lei mi stupisce: “Io lo so, fammi provare” e telefona a George Magazine, il mensile di John John Kennedy, figlio Jack, nipote di Bobby. Impiegò solo due minuti a convincerli e finalmente io vidi le mie foto pubblicate».
Nel Duemila “Funeral Train” diventa un volume, un classico. Fusco chiede «che le foto siano stampate solo sulle pagine di destra perché i lettori non devono muovere la testa, ma restare immobili, girare solo la pagina e veder scorrere le facce come se fossero anche loro dietro il finestrino del treno, accanto al feretro di Bobby».
Ricorda quando la mostra venne a Roma: «Era stata allestita alla stazione Termini, la gente scendeva dai treni e se la trovava davanti, un’idea bellissima».
Un plastico ferroviario vivente, la storia spezzata, idealmente in scala H0, un popolo che sopravvive all’illusione appena interrotta di una possibile crescita civile con la conquista di una nuova frontiera, lì minuscoli e insieme assoluti, a brillare nel proprio esserci in quel dato momento nella storia. Le giovani marmotte e i soldati, forse gli stessi di Iwo Jima, solo che in questo caso, davanti a un Kennedy, le aste delle bandiere sono inchinate.
L’uomo si affaccia al finestrino e scatta più di duemila foto, sembra le stia dedicando al popolo americano che consegna l’ultimo saluto a se stesso.
So-Long Paul.