La scelta del direttoreIl Piccolo Teatro rappresenta la storia culturale di Milano, il suo futuro riguarda tutti noi

Il principale palcoscenico di prosa d’Italia è al centro di una gara il cui risultato doveva già essere prestabilito, salvo alcune “sorprese” degli ultimi giorni. A uscirne perdente rischia di essere la città

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Il Piccolo Teatro di Milano è il contrario di qualcosa di contenuto e molto più di un teatro. È un’istituzione: il primo “stabile” del Paese e il più importante teatro di prosa d’Italia. Fondato nel 1947 da un caposcuola del teatro, Giorgio Strehler, e da un altro grande uomo di cultura e politica, Paolo Grassi, in una Milano distrutta dalla guerra, impersona l’accordo tra due uomini diversissimi, che però si erano trovati su una cosa: il teatro è importante quanto la scuola e gli ospedali.

A vedere gli ultimi sviluppi, però, non si direbbe che sia più così. Dopo la dirigenza di Strehler durata sessant’anni e quella ventennale di Luca Ronconi e Sergio Escobar, il momento di nominare un nuovo direttore appare come una partita guidata molto più dagli interessi della politica che da ideali di qualità. Una vicenda che rischia di passare sotto silenzio, pur avendo il teatro un peso specifico (e culturale) importante, come racconta a Linkiesta un vecchio socialista milanese che ama il teatro e pensa che il teatro sia la culla del socialismo.

Ecco il contesto. La scadenza del mandato di Escobar sarebbe stata il 30 settembre: lui pensava di essere rinominato, salvo che nel frattempo una agguerrita lettera dei dipendenti del teatro a inizio giugno è arrivata per chiedere «una nuova guida» che potesse far cambiare passo ai futuri progetti del teatro, complice l’impatto della crisi del coronavirus. Escobar dà così le dimissioni anticipate al 31 luglio, comunque difendendo il proprio operato. Inizia il processo per la selezione di un nuovo nome.

Secondo il Comune di Milano, cui storicamente spetterebbe il peso maggiore della decisione, con l’approvazione del Ministero dei Beni culturali, il posto dovrebbe andare a Umberto Angelini, direttore del Crt Teatro dell’arte e del teatro di Brescia. Il problema? Angelini viene giudicato di “taglia” troppo inferiore rispetto al peso del Piccolo.

Così, dalle parti del ministero si fanno avanti. In particolare il segretario generale Salvo Nastasi avanza la sua candidatura. È una sorta di “ticket”: lui propone Rosanna Purchia, ex dipendente del Piccolo che con Nastasi ha guidato il San Carlo di Napoli, e lei poi chiamerà Angelini come direttore artistico.

I giochi sembravano già chiusi. Ma siccome «viviamo in un paese dove la politica si vergogna di quello che decide», rivela la fonte, si sceglie di procedere tramite le cosiddette “manifestazioni di interesse”. Un’operazione che in realtà poco si addice a un ruolo così importante. Si stabilisce di ricevere un centinaio di candidature, di selezionarne cinque con la speranza di arrivare allo stesso risultato, cioè con Purchia alla guida.

I cinque selezionati sono Antonio Calbi, sovrintendente dell’Istituto del Dramma Antico di Siracusa e ex-direttore del Teatro di Roma; Filippo Fonsatti, direttore del Teatro Stabile di Torino, la stessa Rosanna Purchia, Marco Giorgetti del Teatro della Toscana e Claudio Longhi di Emilia Romagna Teatro.

Il “gioco” è ben illustrato dall’invito ai selezionati di presentare – nel giro di appena dodici ore – il programma per il futuro del teatro. Lì viene fuori il pasticcio. Longhi si ritira subito, mentre Calbi e Giorgetti propongono dei dossier presentabili, per quanto tali si possano definire dei progetti preparati in un arco di tempo così breve. A lasciare tutti a bocca aperta è però Filippo Fonsatti, che invia un documento di 38 pagine estremamente dettagliato, dove propone, oltre a Mario Martone come direttore artistico, anche una serie di collaborazioni internazionali con i cinque più importanti teatri europei. Era evidentemente preparato.

E Purchia? A detta delle indiscrezioni, la presentazione della favorita alla dirigenza è povera di contenuti. A quel punto, due consiglieri regionali membri del cda non se la sentono di votare per lei, tant’è che non si presentano la mattina di lunedì 27, ieri, per la votazione. Peraltro è facilissimo che Calbi e Fonsatti facciano ricorso.

«Milano purtroppo ha un rapporto costantemente inversamente proporzionale tra quello che succede e il panorama culturale», dice la nostra fonte. «La politica culturale della città di Milano è un disastro. Basta guardare alla Scala, al Salone del Libro, alle mostre di Palazzo Reale in mano ai privati. Una volta chiunque volesse capire qual era il modo di fare il melodramma, doveva venire al teatro di Milano. Zeffirelli, Ronconi, Abbado sono nomi che ci distinguono a livello internazionale».

Oggi i grandi nomi scarseggiano, ma lavorando con serietà si potrebbe comunque arrivare a garantire al Piccolo una prosecuzione dignitosa dei propri lavori. Invece, si crea uno stallo che appare distante dalla visione originale dei fondatori del teatro. Preoccupante è soprattutto che il segnale per dire “forse qui si sta esagerando” sia arrivato dalla Regione, che in realtà dovrebbe essere disinteressata alla questione e ricoprire semplicemente un ruolo di rappresentanza in cda.

«Questa storia è brutta perché la città ha fatto un passo indietro, e Roma ha fatto due passi avanti. Non si può sentire che bisogna abbassare la testa, perché altrimenti poi il ministero poi non dà più fondi». Le vicissitudini della Scala e il problema degli avvicendamenti dei vari sovrintendenti anziani e stranieri alla guida dei teatri italiani sono l’esempio più lampante del destino di molte realtà culturali, se non si pone la giusta cura nella gestione.

Non è chiaro, a questo punto, che cosa potrebbe succedere. Ma l’impasse si dovrà sbloccare, in un modo o nell’altro. «Queste storie gridano vendetta. C’è poca considerazione per la cultura, queste scelte c’entrano poco o niente con Paolo Grassi. Eppure il Piccolo è la storia del mondo, ed è a Milano. È il nostro teatro».

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