La coincidenza temporale ha fatto sì che in questi giorni le prime pagine dei quotidiani si dividessero tra la riconferma di Andrzej Duda a presidente della Polonia e l’escalation del caso Autostrade in Italia, sollecitando un’associazione apparentemente eccentrica, ma forse anche istruttiva. L’associazione cioè tra la catastrofe di Smolensk, l’incidente aereo del 2010 in cui morirono il presidente polacco Lech Kaczynski e buona parte dei vertici politici, militari ed economici del paese, e il crollo del Ponte Morandi.
O per meglio dire: tra l’uso politico dell’incidente aereo, su cui il Pis (il partito di Duda) ha costruito le sue fortune, attraverso un micidiale impasto di teorie della cospirazione e propaganda nazional-populista, e la campagna messa in campo dal Movimento 5 stelle all’indomani della tragedia di Genova.
In particolare, con l’indimenticabile messaggio inviato a tutti i giornalisti nella chat whatsapp gestita dal portavoce del presidente del Consiglio (di allora e di oggi, purtroppo, sia il presidente sia il portavoce).
Chat in cui Rocco Casalino linkava la seguente notizia dal sito del Fatto quotidiano: «Fischi dai cittadini presenti alle esequie di Stato hanno accolto alcuni parlamentari del Pd, mentre applausi prolungati si sono levati per i rappresentanti del governo Di Maio, Salvini e Toninelli». E significativamente aggiungeva: «Sono curioso di leggere i giornali domani». A buon intenditor, poche parole.
Non c’è bisogno di aggiungere che i giornali dell’indomani – come forse era anche giusto, e forse no – lo avrebbero ampiamente accontentato.
L’immagine dei cittadini di Genova che davanti alle bare fischiavano gli esponenti del Pd, duramente sconfitto alle elezioni di appena pochi mesi prima, e applaudivano i nuovi vincitori – vera, verosimile o esagerata che fosse – aveva una potenza indiscutibile.
Preceduti dalle loro dichiarazioni di guerra contro la famiglia Benetton, Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Danilo Toninelli si presentavano come i vendicatori del popolo, venuti finalmente a fare giustizia.
L’operazione era facilitata non solo dalle evidenti mancanze in tema di manutenzione e sicurezza all’origine della tragedia, ma dal carattere molto discutibile dell’intera vicenda autostrade, a cominciare dall’idea stessa di privatizzare un monopolio tecnico, non soggetto alle normali leggi del mercato in quanto non replicabile (se anche fosse gestita male, non posso costruire un’altra autostrada per farle concorrenza) e sicura fonte di rendita per i secoli dei secoli.
Scelta che chiamava in causa il fior fiore dell’establishment repubblicano e dei primi governi di centrosinistra, offrendo così un’occasione perfetta per la narrazione populista di un paese fino al giorno prima ostaggio di un’élite politico-finanziaria rapace e insaziabile.
Senza dimenticare che le caratteristiche della famiglia Benetton, con la loro proiezione internazionale, le campagne di Oliviero Toscani e gli slogan antirazzisti («United colors of Benetton»), ne facevano comunque il tipico esempio di quel capitalismo cosmopolita e liberal da sempre bersaglio privilegiato dei populisti di tutto il mondo.
In altre parole, prima ancora della tragedia del Ponte Morandi, i Benetton avevano già tutte le caratteristiche per diventare quello che per Viktor Orbán è George Soros: il nemico perfetto. Il capro espiatorio contro il quale mobilitare la propria base.
Il fatto che i Benetton abbiano fatto del loro meglio per rendere il lavoro dei propri accusatori ancora più semplice – nella gestione delle autostrade prima e nella maniera di reagire alla tragedia poi – non dovrebbe far perdere di vista il dato essenziale, che resta il modo in cui il governo Conte (uno e due) e il Movimento 5 stelle hanno scelto di utilizzare la tragedia, e soprattutto il loro conclamato sprezzo per ogni più elementare principio dello Stato di diritto.
In questo perfettamente coerenti con se stessi, va detto, e con l’atteggiamento da sempre tenuto verso questo genere di garanzie costituzionali: che tutelino i diritti di una grande famiglia del capitalismo italiano o quelli di una povera famiglia di immigrati su una nave che non si vuole lasciare attraccare.
Molto più della leggerezza con cui si gioca con lo stato di emergenza e l’abuso dei dpcm, è questo modus operandi a rappresentare una minaccia per la democrazia italiana e per l’equilibrio dei poteri, e lo dimostra proprio quel che è accaduto in questi anni tanto in Polonia quanto in Ungheria (nella principale edizione del telegiornale della televisione pubblica polacca controllata dal Pis, a proposito dello sfidante di Duda, il 9 luglio è apparso in sovrimpressione questo titolo: «Trzaskowski soddisferà le richieste degli ebrei?»).
Del resto la tragedia del ponte Morandi non è stato certo l’unico caso su cui si sia esercitata la macchina della propaganda populista, un insieme per niente eterogeneo che va dai canali della Casaleggio Associati a quelli di Casapound, passando per la Bestia salviniana, Fratelli d’Italia e un’ampia schiera di formazioni ibride, a metà tra politica, giornalismo e teppismo.
Il tentativo di creare il nostro «momento Smolensk» si è ripetuto, con maggiore o minore successo, diverse altre volte.
Ad esempio nella campagna su Bibbiano, con Di Maio che il 18 luglio 2019 accusa il Partito democratico – in un video ancora facilmente reperibile in rete, e mai ritrattato – di togliere «alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli».
Tali metodi non sono mai stati rinnegati, e tantomeno abbandonati. Lo testimoniano i messaggi intimidatori inviati in questi giorni in risposta alle voci su una possibile ascesa di Mario Draghi alla guida del governo, come quello riportato dal Corriere della sera di sabato, secondo cui a Palazzo Chigi si vanterebbero di metterci «un minuto» a costruirgli contro una narrazione «aggressiva». Una narrazione sul modello Bibbiano, evidentemente.
Chissà, forse possiamo permetterci di riconsegnare allo Stato le autostrade, l’Ilva, l’Alitalia e ogni altra industria del paese.
Forse possiamo permetterci persino di farle gestire alla classe dirigente che ha messo Pasquale Tridico all’Inps e Mimmo Parisi all’Anpal.
Ma di sicuro non possiamo permetterci questi metodi, con cui l’Italia minaccia ogni giorno di più di trasformarsi in una democratura.
Metodi che andrebbero trattati per quello che sono, vale a dire l’equivalente propagandistico delle mine antiuomo, e tolti dal campo di gioco delle democrazie occidentali.
Questo genere di guerra sporca va messa al bando prima che diventi, definitivamente, la regola. E in Italia prima che altrove, se al prossimo giro non vogliamo ritrovarci anche noi tra i paesi di Visegrad, nella migliore delle ipotesi. Essendo l’ipotesi peggiore, di questo passo, la trasformazione in una specie di stato fallito sul modello venezuelano.