Quanto vi è mancata da uno a dieci la politica durante il lockdown? Non quella di cui avremmo fatto tutti volentieri a meno, a base di decreti d’urgenza e conferenze stampa più o meno solenni. La politica vera, fatta di mosse e contromosse, avances pubbliche e trattative private, azzardi e riposizionamenti.
A qualcuno, certamente, è mancata moltissimo: ai leader politici stessi, in tutto il Continente. Quasi a voler recuperare il tempo perduto, e al contempo metabolizzare le lezioni della pandemia, da settimane s’avverte un tramestio di fondo crescente, e sempre più senza confini.
Tra video-interventi, interviste a giornali di altri Paesi e tweet a ciel sereno, il great game della politica europea s’è rimesso in moto a pieni giri. Merito o colpa del piatto di risorse colossale da negoziare e direzionare per i prossimi anni – tra bilancio pluriennale e piano straordinario di ricostruzione. Ma non solo.
Specialmente nel campo del centrodestra europeo, le mosse a sorpresa in questo primo scampolo di luglio sono state tante e tali da far sorgere un’unica vera domanda: ma il Partito popolare europeo ci è o ci fa? Ossia, sta mettendo in campo una grande e accurata strategia di riposizionamento o invece è in pieno stato confusionale?
Andiamo con ordine. A Bruxelles in questi giorni fa rumore la scivolata balcanica piuttosto inelegante della presidente della Commissione Ursula von der Leyen consumatasi via social nel weekend. L’incidente si può spiegare in due parole. Non per particolari qualità di sintesi del cronista, ma perché sono quelle ad aver inguaiato l’ex ministra tedesca. «Sigurna Hrvatska!», afferma sorridente la presidente in un micro-contributo video postato venerdì su Twitter dal partito di centrodestra croato Hdz.
Significa «Croazia sicura» ed è il motto della campagna con cui il premier uscente Andrej Plenković si è ripresentato alle elezioni di domenica (poi vinte agevolmente). Apriti cielo. Giornalisti e parlamentari europei hanno fatto notare l’invasione di campo inopportuna per una leader che dovrebbe rappresentare tutta l’Ue, e non una parte politica, e un’organizzazione europea come “The Good Lobby” ha addirittura presentato ricorso formale per violazione del codice di condotta della Commissione.
L’incidente, facile prevedere, sarà presto dimenticato, anche perché la Croazia non ha il peso politico di un grande Paese, ma è servito a ricordare che anche von der Leyen ha bisogno di tessere costantemente la sua tela politica per riuscire a governare quel “corpaccione” irrequieto che è l’Unione europea.
Ben più sorprendente – benché passato quasi sotto silenzio in Italia – è stato un altro endorsement arrivato la scorsa settimana da un peso massimo della politica europea: quello offerto dal presidente del Partito popolare europeo Donald Tusk al candidato Democratico alla Casa Bianca Joe Biden. Tradotto: il leader dei conservatori europei tifa (anzi, «prega», ipse dixit) per il successo del frontman dei progressisti americani. Boom.
La ragione? In questi anni «ho avuto modo di conoscere a fondo Donald Trump», ha spiegato lapidario Tusk, e in comune – prosecuzione ideale – ho capito che abbiamo solo il nome. Difficile pensare che un tweet di un ex primo ministro polacco possa spostare qualche voto oltreoceano, ma la “sparata” di Tusk segna comunque uno spartiacque. Valeva solo come cartuccia ad uso interno – la sua Polonia arriva domenica ad un testa a testa serratissimo liberali/sovranisti per la poltrona di presidente della Repubblica – oppure segnala un riposizionamento più ampio nel Partito popolare lontano dalle sirene nazionaliste alla Trump e suoi adepti?
A corroborare questa seconda ipotesi sembrerebbero essere anche altri segnali. Primo fra tutti, il rinnovato approccio “ecumenico” della vera leader de facto del Ppe – con tutto il rispetto per Tusk: Angela Merkel. Con alle spalle la più grave crisi sanitaria ed economica dalla nascita dell’Ue e di fronte la chiamata alla responsabilità del semestre di presidenza, la Cancelliera si è finalmente scrollata di dosso ogni timidezza e sembra determinata a caricarsi sulle spalle il peso della leadership europea.
La partita del Next Generation Eu, in buona parte, sarà decisa dalle sue capacità negoziali. E per convincere tutti che fa sul serio, ha invitato a chiare lettere i Paesi più bisognosi di aiuti a mettere in campo piani pluriennali credibili e far uso di «tutti gli strumenti a disposizione» (Mes compreso). Senza lesinare, se necessario, carezze e ammiccamenti a governi di segno politico opposto come quello di penta-centro-sinistra italiano.
Una linea sposata in pieno, e anzi amplificata in chiave interna, dal vero e ormai unico referente italiano del Partito popolare europeo (per informazioni, citofonare Angelino): Berlusconi. Proprio nel momento in cui si apre la grande partita italiana ed europea della ricostruzione, i segnali di apertura a Conte e al centrosinistra si sono fatti sempre più intensi ed espliciti, adeguatamente ricambiati. Al netto delle comparsate in piazza del “facente funzione” Tajani a fianco degli alleati Meloni e Salvini, la linea di fondo di Forza Italia pare lontana anni luce da quella della destra-destra.
Cosa bolle in pentola, dunque? Che ritiratasi l’onda di piena del sovranismo anti-immigrati – e risalita in tutto il mondo la richiesta di competenze nelle istituzioni e diritti nella società – i maggiorenti del Partito popolare europeo siano al lavoro per riportare il raggruppamento leader in Europa su posizioni più chiaramente moderate, se non centriste? Può funzionare?
A un passo dalla fine della sua traiettoria politica Merkel vuole lasciare in eredità all’Europa l’esperimento che tanto le ha portato fortuna, la Grosse Koalition istituzionalizzata? Oppure, più semplicemente, fuori dai giochi in tutti i grandi Paesi europei – Germania esclusa – il centrodestra ha perso la bussola e sta sbandando?
La soluzione all’enigma sarà chiara nei prossimi mesi. Nel frattempo, e nel dubbio, qualcosa che possiamo fare c’è: ricordare che al netto di riposizionamenti e proclami internazionali, il Partito popolare non ha ancora risolto il problema numero 1 che ha al suo stesso interno: Viktor Orbán.
Il mister pieni poteri d’Ungheria, che affama di diritti e libertà il suo Paese ormai da anni, non risulta ancora essere stato seriamente punito dalle istituzioni Ue – di cui il Ppe ha di fatto la maggioranza relativa – né cacciato dalla famiglia popolare stessa. O meglio, alla “sospensione” decisa ormai oltre un anno fa diverse voci di peso del centrodestra europeo hanno fatto seguire ad aprile la richiesta di espulsione dall’euro-partito, ma sin qui senza successo. Anche perché a quell’appello mancavano le firme di alcune forze di peso: tra queste, proprio la Cdu (+ Csu) della stessa Merkel e la “nostra” Forza Italia.
Le ragioni della “clemenza” di mezza Europa verso Orbán le ha illustrate perfettamente su queste colonne Simone Benazzo. Ma non è mai troppo tardi per ravvedersi. Il Partito popolare «lavora per il raggiungimento di una democrazia libera e pluralistica, per il rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto», recita l’articolo 3 del suo Statuto.
Un piccolo sforzo e forse ci convinceremo davvero che quella di questi mesi è una seria svolta antipopulista.