Luglio 1995Cos’è rimasto 25 anni dopo il massacro di Srebrenica

Dopo la peggior strage compiuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale l’identità musulmana non è sparita, ma si è rafforzata. «Il problema è che non c’è stata alcuna elaborazione del conflitto ognuna delle comunità vive immersa nel proprio incubo, nella propria narrazione»

Afp

Il massacro di Srebrenica si consumò nel giro di pochi giorni, nel luglio del 1995,, sotto gli occhi dell’opinione pubblica del mondo intero e dell’Europa che, dalla televisione, assisteva a quanto accadeva in quella piccola enclave musulmana, in una regione bosniaca a maggioranza serba. Sembrava impossibile che potesse accadere, ma accadde.

All’arrivo delle unità dell’esercito della Repubblica srpska, guidata dal generale Ratko Mladić, tutti i cittadini maschi dai 12 ai 77 anni vennero radunati, portati fuori dalla cittadina e poi uccisi. I morti, principalmente uomini e ragazzi bosniaci di fede islamica, furono più di 8mila (8.372 secondo le stime ufficiali).

Il massacro di Srebrenica, che al momento dell’eccidio si trovava sotto la protezione di un contingente olandese delle Nazioni Unite, situato a Potočari, in quanto dichiarata safe zone, è stato definito la peggior strage compiuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. E a 25 anni da quei fatti, la cancellazione sistematica di intere generazioni di padri, fratelli e figli continua ad avere un impatto sociale molto importante, perché porta con sé rancore, rassegnazione e ricerca continua di punti di riferimento perduti. 

Veniva definita una guerra tra etnie, anche se quella denominazione ha sempre contenuto un vizio, perché l’unico elemento che differenziava le due parti in conflitto era il credo religioso, utilizzato come “clava” per alimentare forme di rancore reciproche e per individuare un nemico da eliminare. Che, nel caso di Srebrenica, era il bosniaco musulmano. La natura di quella guerra fu, infatti, criminale, combattuta per denaro e potere.

E alla domanda se le conseguenze di quel genocidio possano aver prodotto forme di radicalizzazione religiosa tra i sopravvissuti, soprattutto nelle giovani generazioni, che in quello sterminio persero gran parte della loro identità familiare, ha risposto Michele Nardelli, tra i fondatori dell’Osservatorio Balcani-Caucaso e per anni nella cooperazione internazionale di comunità: «Per quanto riguarda i musulmani di Bosnia, la radicalizzazione rappresenta un fenomeno marginale e i gruppi fondamentalisti come lo Stato islamico, in questi anni, non sono riusciti a farsi molto spazio in questo dolore». 

Perché se è vero che, negli anni Novanta, più di 2.500 guerriglieri musulmani, provenienti dal vicino Oriente, raggiunsero la Bosnia per fare la loro parte nel conflitto, l’orientamento wahhabita non è mai riuscito ad attecchire nel tessuto sociale dei musulmani bosniaci. Nemmeno dopo le violenze compiute a Srebrenica.

«Questi mujaheddin non avevano niente a che fare con l’islam endogeno, che è sempre stato diverso, anche perché nato dall’eresia bogomila, e che io definisco un islam europeo. Certo, ci sono stati dei tentativi di condizionamento, come i finanziamenti che arrivavano in cambio dell’introduzione di costumi islamici radicali, ma in Bosnia non si sono mai diffusi», chiarisce Nardelli.

Che pone però un’altra questione: «Se si passeggia per le strade di Sarajevo, oggi, è possibile incontrare delle ragazze con il velo insieme alle loro madri che, magari, indossano una minigonna. Questo cosa ci dice? Che quella famiglia non aveva certo la volontà di introdurre costumi islamici radicali, ma che il velo rappresenta una forma di autodifesa (che non è detto sia presente in tutte le giovani generazioni). 

«In alcune circostanze – continua l’esperto – c’è chi ha bisogno di avere un punto di riferimento e, in mancanza d’altro, la religione lo può diventare, perché è una questione identitaria. È più facile, poi, che queste dinamiche si concretizzino in periferia o nelle zone più marginali, perché le città hanno mantenuto lo spirito laico che, peraltro, era una delle caratteristiche della Bosnia». Per l’attivista, comunque, l’identità musulmana non è sparita con la pulizia etnica di 25 anni fa, ma paradossalmente si è rafforzata. 

«La caratteristica più interessante della Bosnia Erzegovina è il fatto di essere stata terra di incroci durante la storia, quindi è difficile definire delle identità chiuse in un contesto dove, tradizionalmente, le persone dialogano tra di loro, soprattutto dove il tema religioso ha a che fare con eresie, sincretismi e forme di intreccio tra le diverse religioni monoteiste», continua Nardelli. Il quale ritiene che, negli anni Novanta, a voler essere messo in discussione, fosse proprio l’idea dell’esistenza di un islam europeo.

«Perché il primo obiettivo di guerra di Sarajevo è stata la Biblioteca nazionale? Perché quello era il luogo simbolico di questo sincretismo: lì erano custoditi gli antichi manoscritti che davano testimonianza di una storia, che non è solo quella della Bosnia Erzegovina, ma dell’Europa e di come si è costruita. Con il bombardamento sulla Vijećnica si voleva bombardare un’idea di Europa, come incontro di diversità», racconta l’esperto. 

«Oggi, abbiamo, invece, a che fare con tante forme di radicalizzazione religiosa, che attraversano tutte le comunità presenti sul territorio. Le guerre non aiutano mai e non aprono a scenari nuovi positivi, ma tendono a rendere ancora più dure certe dinamiche. Quando la politica e le istituzioni non vogliono dare risposte, la radicalizzazione rischia di essere l’unico esito possibile, come la rassegnazione. Quando vengono meno i punti di riferimento, ci si aggrappa a quello che si trova. Sono fenomeni della post-modernità. E questo, i propagandisti delle identità del passato, al centro di quel conflitto, lo sanno e restano sempre in movimento», continua Nardelli, il quale conferma che l’onda lunga e gli effetti di quel conflitto non sono ancora conclusi.

«Per ogni contraddizione sociale che si sviluppa oggi in Bosnia, le persone tendono a dare una risposta riconducibile a una divisione etnica», specifica l’esperto, affermando che i vincitori di quel conflitto furono i nazionalisti e i signori della guerra, «di tutte le risme, di tutte le religioni e di tutte le nazionalità», capaci di veicolare su presunte diversità sociali i sentimenti di odio di intere popolazioni. 

«Il problema è che non c’è stata alcuna elaborazione del conflitto e questo vale non solo per Srebrenica, ma per tutta la Bosnia Erzegovina», continua il cooperante. Come rilevato da Nardelli, al momento, la rassegnazione e il ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza nel nuovo contesto, sono i sentimenti che prevalgono. 

«La dimensione che ha assunto la città di Srebrenica, a livello internazionale, ha aiutato più la propaganda che non l’elaborazione del conflitto, che non c’è mai stata. E il risultato è che ognuna delle comunità vive immersa nel proprio incubo, nella propria narrazione», specifica l’attivista.

L’elaborazione del conflitto è per il cooperante, la condizione necessaria al superamento del lutto e del risentimento, perché tende a mettere in dialogo tutte le diverse narrazioni: «È un processo complesso, perché implica terzietà, posizione non sempre semplice. Pensiamo anche solo a Srebrenica: non è facile essere terzi in quel luogo. Ma questo non vuol dire dimenticare le responsabilità, né significa essere equidistanti, ma piuttosto ’equo-prossimi’».

«Per un periodo molto lungo, e ancora oggi, penso che l’Europa possa costituire la chiave della soluzione del problema e lo poteva essere anche prima della guerra», specifica. Per il cooperante, all’interno della dimensione europea, le contraddizioni che hanno attraversato la Bosnia avrebbero potuto diluirsi in modo virtuoso: «Per l’Europa è stata un’occasione mancata, almeno fin qui».

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