Nella famiglia Drummond c’erano: un padre alcolizzato, un figlio con l’Aids, una figlia astronauta amputata d’un braccio, una seconda moglie del padre che per sbaglio inciampava nelle mutande del figliastro (nel senso di: se lo portava a letto) – e sicuramente sto dimenticando qualcuno.
La famiglia Drummond in questione non è quella che ci faceva innocentemente ridere negli anni 80, il signor Drummond che aveva adottato Arnold e Willis nel telefilm del pomeriggio Harlem contro Manhattan (che oggi sarebbe appropriazione culturale se non condiscendenza se non direttamente propaganda schiavista, benché i due orfani neri vivessero come principini in un appartamento da milionari – ma milionari bianchi, perdinci).
La famiglia Drummond in questione è quella con cui Douglas Coupland aprì il secolo della scemenza in cui viviamo, nel romanzo La sacra famiglia. Titolo, quello italiano, che per una volta ebbe doti di critica letteraria: ci trovavamo al punto di svolta tra la sacra famiglia auspicata dall’editore di qui e il futuro preconizzato nel titolo originale del romanzo: All families are psychotic.
Nel 2012 scrissi un libro sull’adulterio all’italiana in cui, tra una relazione parallela di Marcello Mastroianni e una di Eugenio Scalfari, c’erano anche parecchi dettagli sulle corna della mia formazione, quelle di mio padre a mia madre.
Tra le prime persone a leggerlo ci fu uno scrittore la cui famiglia era il sogno d’ogni scrittore: padre truffatore, madre vittima, sorella isterica. Il genere di famiglia della quale una mia amica romanziera sospira sempre che, con materiale così, scriverebbe un libro all’anno. Lo scrittore lesse il manoscritto e mi fece una telefonata imbarazzata. Sì, certo, bello, però.
All’avversativa seguiva un’accorata preoccupazione, identica a quella che avrebbe potuto esprimere mia nonna buonanima dal suo paesino in cui tutti si conoscevano e si andava alla messa tutte le mattine: ma ti pare proprio il caso di sputtanare così la tua famiglia?
Aveva ragione lui; non avrebbe mai scritto un libro interessante, ma aveva ragione: convenzioni sociali volevano che, a parte saltuarie eccezioni tipo il figlio di Riina, dalle famiglie ci si aspettasse comunque lealtà, e un affetto omertoso; un congiunto che sputtanava un altro congiunto non era uno che era più amico della verità: era uno psicotico.
Poi è arrivata l’epoca in cui le regole valgono solo per quelli che abbiamo deciso essere persone perbene, e quindi Mary Trump, figlia del fratello di Donald, pubblica un libro il cui scopo precipuo è sputtanare lo zio, e non solo vende novecentomila copie il primo giorno (quello sarebbe spiegabile: da sempre ci piace che i panni sporchi degli altri non vengano lavati in famiglia, più ne godiamo e più c’illudiamo che a noi non accadrà mai), ma viene trattata dai liberal americani come una specie d’eroina.
L’altra sera era ospite sulla Cbs di Stephen Colbert, che è un bravo comico e quindi è una persona serissima, che normalmente mai violerebbe la Goldwater rule (la regola per la quale non si diagnosticano malattie mentali a gente che non hai visitato, non si diagnosticano se non sei lo psichiatra che ha in cura il soggetto, e certo non si diagnosticano perché hai visto qualcuno alla tele), e lui le chiedeva se il presidente degli Stati Uniti fosse sociopatico, se il di lui padre fosse psicopatico, e per molto meno riferito a una persona qualunque Raffaelle Morelli l’avremmo fustigato sulla pubblica piazza; invece, siccome con Trump vale tutto, Colbert e la nipote del presidente avevano l’aria di chi sta salvando il mondo sparando diagnosi a casaccio.
Quando Trump, intervistato da Chris Wallace su Fox, dice che quella nipote lui la conosce pochissimo, e come osa dire una cosa del genere, il padre non era affatto psicopatico, e poi aggiunge «se lo fosse stato te lo direi», è uno struggente tentativo di sembrare moderno: no che non lo diresti, Donald, sei un uomo del Novecento, quando il papà lo si difendeva a costo di rimetterci un bestseller.
La settimana scorsa su Slate c’era la più bella lettera di bianchi contriti mai comparsa su un giornale. A scrivere era la madre bianca di due ragazzini adottati neri (cioè: la versione contemporanea del signor Drummond – quello del pomeriggio di Canale 5 negli anni 80, non quello di Coupland).
Abbiamo fatto tutte le cose giuste, elencava contritissima la donna nell’illustrare i dieci anni in cui i bambini sono stati prima affidati e poi adottati in quella bianchissima casa: hanno discusso della razza, del privilegio, del razzismo sistemico, «pensavamo di aver fatto un buon lavoro, fino a ieri».
Una sera la sorella (sedicenne) dice ai genitori che ha un messaggio da mostrare loro. Il messaggio riguarda il fatto che il fratello (undicenne) vende ai compagni delle medie quelli che la lettera definisce “N word passes”. “N word” è il modo in cui la stampa americana evita anche solo per diritto di cronaca di ripetere “nigger”.
Ascoltavo di recente un podcast molto interessante in cui una tizia anonima (giacché terrorizzata di svelare la propria identità) raccontava che Robin DiAngelo, la tizia arricchitasi spiegando ai bianchi quanto siano dei razzisti schifosi, era stata chiamata a tenere un seminario nella sua compagnia teatrale giacché un attrezzista, durante una prova, aveva ingenuamente chiesto se quella che su un copione era segnata come “N word” significasse “negro”: «La parola era stata detta e quindi dovevamo essere rieducati».
Mentre l’America presentabile è contrita per l’indicibile, da qualche parte c’è un undicenne di genio cui non importa nulla se i compagni lo chiamano con una brutta parola (un fenomeno che oggi è considerato altamente traumatico e fino a a tre quarti d’ora fa era semplicemente chiamato “infanzia”), ma sa come monetizzare il senso di colpa della società. Il lasciapassare per dire la parola con la N costa tra i 20 e i 50 dollari. Secondo la sorella (probabilmente invidiosa dell’idea), l’undicenne ne ha già incassati mille. La madre scrive a Slate «mi sento una madre e una persona orribile», preoccupata dell’eventuale disagio dei compagni neri del figlio (quelli che non hanno saputo monetizzare l’altrui maleducazione).
La giornalista che tiene la rubrica di posta ne ha per tutti. Il figlio svende l’esperienza dell’essere nero a compagni non neri che non potranno mai capirla fino in fondo, ma non sarà perché lei, bianca che non è altro, non l’ha abbastanza circondato di gente nera facendolo sentire straniero nella sua pelle, e comunque chi è lei per discutere del diritto d’un nero a usare la parola con la N, discussione che comunque non può fare giacché è bianca e la parola con la N non può usarla. Sembra uno sketch dei Monty Python.
Forse siamo tutti la madre di Douglas Coupland in quella leggenda metropolitana secondo cui All families are psychotic era stato iscritto ispirandosi a lei. A lei che era impazzita. A lei che era impazzita quando aveva scoperto l’internet. Forse il figlio il romanzo l’aveva scritto per occupare il territorio prima che lei si mettesse a scrivere alle rubriche di posta on line. Che poi è la versione dilettantesca dello scrivere un bestseller sui picchiatelli di famiglia, e promuoverlo con diagnosi telegeniche.