«Il pudore, tutto sommato, non se lo sono inventato i preti. Assieme alla parola, è ciò che distingue gli uomini dalle bestie». (Pietro Germi, 1962)
Ogni fenomeno sociale ha il suo Agro Pontino, e quindi persino le telecamere sui telefoni hanno fatto cose buone. Se uno che passava di lì e come tutti aveva un telefono in tasca non avesse ripreso l’uccisione di George Floyd, gli americani non si sarebbero improvvisamente svegliati scoprendo d’avere una polizia più isterica di quanto sia accettabile.
Di recente vedevo un filmato girato nella palestra della Diaz, la scuola di Genova dove diciannove anni fa pensarono bene di massacrare di botte gente che dormiva, e pensavo che, se oggi una roba così non potrebbe accadere, è perché dopo il primo minuto ci sarebbero già filmati caricati su qualunque social, è perché tutti abbiamo una troupe televisiva in tasca.
Però, delle immagini di Danilo Toninelli che viene preso a male parole da elettori insoddisfatti (tautologia) mentre è seduto in un bar, e solo la scorta evita che finisca peggio che a sole male parole, di quel Raphael in sedicesimo (viviamo in un secolo che, pur essendo diverso da tutto, riesce sempre a sembrare la copia di mille riassunti), di quella scena lì io vedo solo il dito, non la luna.
Vedo solo che c’è qualcuno con un cellulare che riprende, e che un obiettivo deforma sempre la realtà. Deforma l’attacco dei tizi, che sanno che poi si faranno belli sui social, e la difesa di Toninelli, che come tutti gli esseri umani quando è sicuro di non essere su un palcoscenico (cioè ormai sì e no nel cesso di casa propria) avrà un atteggiamento diverso rispetto a quando è costretto a esibirsi.
Vi ricordate la tizia col cane senza guinzaglio a Central Park? È stata le nostre 48 ore d’indignazione, qualche settimana fa.
Un tizio le diceva di mettere il guinzaglio al cane, e lei chiamava la polizia. Lo schema in cui il discorso collettivo l’ha inquadrata è subito stato: è razzista. Giacché il tizio era nero. Ce l’aveva detto lui, perché mica lo sapevamo: era lui a riprenderla, era solo lei a essere ripresa.
Poiché a quel punto l’America aveva già scoperto (dal filmato d’un telefono cellulare) che la polizia tende a non essere rispettosissima coi sospetti, la conclusione che l’opinione pubblica ne ha tratto (che ha tratto da un filmato fatto da un telefono cellulare) è che la signora, razzista, stesse cercando di far ammazzare il tizio dalla polizia.
Chiamare la polizia è quindi un gesto violento. Filmare qualcuno con un cellulare, sottintendendo «qualunque cosa tu stia facendo non su un palcoscenico ma nella tua vita privata verrà pubblicamente sputtanata», non è considerato un gesto violento.
Quando capiremo quanto lo è, quando ci porremo il problema di regolamentare la fine non della privacy ma della dimensione non spettacolarizzata delle nostre vite, allora sarà troppo tardi. A me pare già troppo tardi ora.
(La miglior festa cui sia stata in anni recenti è una in cui la padrona di casa aveva vietato di fare foto e riprese coi cellulari. Un’oasi di civiltà. Poi uscivi e, mentre aspettavi il taxi, finivi con lo sguardo da triglia sullo sfondo del selfie di qualche smanioso dell’era della riproducibilità).
Nei giorni scorsi girava un filmato fatto da una coppia (si sentivano in sottofondo le loro voci): mostrava una ragazza che, in una stazione di servizio, non riusciva a capire da che parte accostare perché la pompa di benzina stesse dal lato giusto del serbatoio. Era una cosa innocente, ma evidentemente servono gli innocenti perché ci venga voglia di far la morale: siamo abbastanza pigri da chiedere che nessuno tocchi Abele, con Caino non ci prenderemmo il disturbo.
E quindi è intervenuta un’attivista, subito appoggiata da scrittori e altri personaggi, a dire che la signora non faceva niente di male, che non è bello sputtanarla così solo perché era confusa, che magari non riusciva a capire come accostare perché ha un disturbo psichiatrico (ormai si fa prima a dire quale delle nostre umanissime ottusità non sia rubricata come disturbo psichiatrico). Ma il problema non è la signora che alla fine chissà se è riuscita a far benzina: il problema è la smania di mettere tutto in onda.
Non solo gli altri: le prime vite che abbiamo deciso dovessero esistere in una perpetua dimensione spettacolare sono le nostre. Il New York Post ha pubblicato il video d’una laureata di Harvard in lacrime: doveva cominciare a lavorare da Deloitte, ma non la assumono più perché aveva messo su Tik Tok un video in cui diceva che avrebbe accoltellato il primo che avesse detto «tutte le vite sono importanti» (frase usata in contrapposizione a «black lives matter»), l’avrebbe accoltellato e poi mentre quello spirava gli avrebbe detto «anche il taglietto che mi sono fatta con un foglio di carta è importante».
Non era una minaccia seria, ovviamente; ma, chi vive su questo pianeta se n’è accorto, il meccanismo per cui tutto quel che c’è sui social può servire a sputtanarti e non contano i toni, le intenzioni, le sfumature, quel meccanismo lì è in atto già da un po’ di anni: non sarà certo ora che le aziende si metteranno a distinguere, questa no perché è seria questa sì perché è iperbolica.
Il dettaglio interessante è che il pentimento per aver messo in un video social quel che avrebbe al massimo dovuto dire a un’amica la ragazza l’ha messo in un altro video social: ormai ci sembra inconcepibile non accendere la telecamera.
Ci vorrebbe, invece dell’alert di Twitter che ti chiede se sei sicuro di voler rilanciare un articolo che non hai letto, una valvola di sicurezza sulle telecamere dei telefoni: sei sicuro di voler proprio immortalare questa tua spiritosaggine, crisi di nervi, momento che non c’è bisogno di render pubblico?
Questo quando sputtaniamo noi stessi. Quando riprendiamo gli altri, per quello forse serve un alone viola, come nelle pubblicità progresso degli anni Ottanta. Che ci dica di star lontani da quelli che, mentre stai prendendo il caffè, non solo vengono a romperti i coglioni, ma hanno anche intenzione di inserire il loro diritto a romperti i coglioni nell’eterno archivio della riproducibilità.