La prima volta che ho cantato, ho cantato in Africa. Sì, sono Vito Taburno, e spavaldamente, giovanilmente dissi che lì commisi e iniziai a commettere la tratta delle parole. È il tenebroso brivido che percorre la mia vita.
Cosa sono le canzoni? Sono cose che galleggiano, sono natanti non messi benissimo ma che ancora stanno a galla in superficie.
A cosa servono? Al trasporto delle parole asservite, sottomesse umiliate, vilipese, sottoposte a dozzinali truccature, indotte a meschine smorfie, per il divertimento intorpidito dei nostri contemporanei, che si inebriano di puerile dispotismo al passaggio di queste sgangherate e ridicole cosucce traballanti.
È sempre la solita questione del potere sul mare, il mare, questa parola che come il mare va e viene sempre nelle canzoni, anche quando non c’è. Il mare, reso immortale da Omero e Sergio Bruni, due leggendari cantanti.
Il mare «che nell’attesa fa tremare il cuore». Quale attesa? L’attesa, sempre, «dalla bianca e lucente scogliera».
Queste navicelle rollano e beccheggiano producendo ritmo scricchiolante e musichetta ondeggiante, insomma un continuo rimbambimento, un traffico di balle cotonose che tappano le orecchie con i suoni.
Questi traffici sono ben visti da tutti i regimi perché snervano ogni vitalità. Eppure è sempre bello abbandonarsi con lascivo languore, come scialupette trascinate, al tiro degli ancheggianti vascelli musicali.
Sono sempre avventure nei mari, come nelle letterature di navi e tesori e cacce acquatiche dell’imprendibile, e fluviali penetrazioni dai mari nell’interno.
Ogni sera discendo in questi locali del canto e li risalgo come fiumi in mezzo alla foresta. Discendo e risalgo. Discendo tra rive di clientela e risalgo un corso di fluviale chiacchiericcio.
L’aria è intrisa di respiri umani, di afrori di fritture e di bollori, di un mistodi cibo e profumi, il cibo sa di animali acquatici, terrestri e alati, e di vegetali conditi con l’oleosa umidità che cola, il profumo sa di fiorame e di legname e di sudori. Nei locali da ballo con servizio al tavolo gli animali viaggiano cotti nei piatti e su vassoi e sperlunghe.
Canto, faccio commercio di parole e musica come fossero avorio, pietruzze smeraldine, polvere d’oro o, peggio, animo e corpo umano.
Mi inoltro nel profondo di quest’Africa notturna, creo col canto una spirale sulla pista che ovviamente è il centro, ogni notte, del mondo, un centro segnato dalla punta della scarpa di una ballerina che fa una piroetta, ecco, adesso: scocco il suo alluce dalla mia pupilla.
E cosa c’è al centro? C’è il baratro con sopra la pista da ballo che è il coperchio sull’abisso, chi balla lo sa, chi balla lo sa. Adesso che l’ho detto, adesso lo sa.
La clientela ai tavoli crede d’essere la giungla invasiva, si alimenta estendendo fino ai piatti e ai bicchieri le sue radici aeree, poi queste piante si sollevano, come sradicate, dalle sedie e, cedendo docili a uno smottamento del terreno fangoso, scivolano in pista, dove saranno mosse e sconvolte da un mulinello ventoso.
Quei fusti e quei rami umani, quelle foglie ora larghe, ora più sottili, ora madide, ora di rampicante presa, ora con lanceolato stile, quei fiori di carne e quei frutti oscillanti come teste, si lasciano andare nel flusso strisciante come seguendo un istinto e allo stesso tempo soffocandolo. Ogni gesto negli esseri umani è imitato dal mondo naturale, però camuffato mimeticamente con le frasche, le fronde, con piumaggi e livree, ruggiti, sibili, fischi e squittii dello stesso mondo naturale. Torno a casa in nottata, torno ancora in Africa, è ovvio se da lì sono partito col racconto: il finale è la fine dell’inizio.
Dico veramente, veramente dico “Casa, eccomi…” e sento scalpitare le sedie, sento le fusa feline del divano, l’acero biondo del tavolo scuote la sua criniera da leone, il pianoforte è un coccodrillo spalancato, guarda le mie mani, dipende da come gli faccio il solletico ai tasti se le mie mani saranno il suo pasto o no, lo Zambesi è nei tubi dell’acqua, tra poco farò la doccia sotto le cascate Vittoria, le maniglie mi danno la mano, io do loro la mia, la luce si accende, lo fa per me.
Come sto? Sto bene, grazie. Mi faccio un goccetto petrarchesco:
Raro un silenzio, un solitario orrore
D’ombrosa selva mai tanto mi piacque