«Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa».
Ricordate Pinocchio e l’Omino di burro, il mellifluo cocchiere che invoglia a salire sul suo carro? Potesse tornare in terra, oggi Carlo Collodi potrebbe facilmente riconoscere in quel “visino di melarosa” addirittura un partito politico importante come il Partito democratico, sempre pronto a “raccomandarsi al buon cuore della padrona di casa” con il suo fare sin troppo educato, come quei calciatori che chiedono scusa all’avversario appena lo toccano.
L’Omino di burro smussa, leviga, media, comprende, non affonda, aggiusta, ricompone, lascia fare: si affida, soprattutto. L’abbiamo visto con quella sorprendente e generosa frase di Nicola Zingaretti: «Appoggeremo qualunque iniziativa del governo», il Partito democratico si affida come un vecchio attore al suggeritore. Si affida cioè – usciamo dalle metafore – a Giuseppe Conte, il quale (chi l’avrebbe detto al Nazareno un anno fa?) è più abile di loro, che pure vengono da lontano.
Certo, c’è sempre un retro pensiero cinico ma realista secondo il quale «Conte ci fa vincere», dotato com’è – ragionano – di una propria forza politica ed elettorale, e dunque va fatto assolutamente salire a bordo della carrozza che porta dritto a Palazzo Chigi per i prossimi anni, intanto fino al 2023, poi si vede.
Il Partito democratico infatti sa bene, sondaggi alla mano, che la maledizione di essere “figlio di un Dio minore” continua e continuerà a perseguitarlo, da soli non si va da nessuna parte, neanche inventandosi unificazioni con Articolo 1 o Sinistra italiana o come si chiama, né basterebbero altre forze che esistono sulla carta, tipo Verdi, Sardine, la mitica società civile di sinistra, Repubblica o Il Domani, i ceti medi riflessivi, la Cgil tosta di Landini. No, serve Conte.
La strada migliore, anzi forse l’unica, è spingere l’avvocato del popolo a prenderselo, il popolo: almeno quello dei Cinquestelle, un brand che non funziona più. Ormai lo sanno anche i capi del Movimento, che se non sono proprio sciocchi avrebbero tutto da guadagnare a mettersi sotto l’ala del presidente del Consiglio. Il quale tutto questo lo sa, e infatti ha buon gioco a dire che non farà un partito suo: c’è già, basta arraffarlo.
Lo schema dei dem è dunque abbastanza semplice, prevede un buon risultato alle regionali (dove il patto ligure su Ferruccio Sansa dovrebbe portarsi dietro l’accordo nelle Marche, decisivo per il candidato dem Mangialardi); governare giorno per giorno contando sull’assenza di alternative, grazie alla dabbenaggine della destra; sperare che i soldi europei arrivino; giungere così all’elezione del nuovo presidente della Repubblica; e infine presentarsi insieme, Partito democratico e Liberi e uguali da una parte, e Movimento cinque stelle guidato da Conte, che potrebbe perfino essere più forte, dall’altra.
In questo schema, va da sé, non sarebbe certo l’Omino di burro a menare le danze, al massimo potrebbe portare l’acqua al mulino di Conte ricevendone in cambio il pane del potere. Resta ancora da chiarire (almeno a chi scrive non è chiaro) se Nicola Zingaretti, eletto a furor di popolo segretario sulla linea del «mai con i Cinquestelle», sia disposto ad alzare definitivamente le mani dinanzi alla posizione filo-contiana propria di Franceschini, Bettini e Orlando. Se voglia, cioè, passare alla storia come il leader che abdica al ruolo di far governare il suo partito (e magari se stesso) direttamente e non per interposta persona, oppure se punti a riprendere l’idea di un campo progressista con il Partito democratico come perno.
Fare l’Omino di burro o il leader dei riformisti italiani è una scelta di fondo che forse lo attanaglia: e chissà se sarà un congresso a deciderlo, prima o poi.