In Polonia il cinema è in ottima salute. Le entrate dei box office segnano continui record. Anche grazie a produzioni locali capaci di stimolare il pubblico e attirare premi internazionali. Il Festival di Cannes e gli Oscar guardano a Varsavia come epicentro di un nuovo cinema europeo. I suoi autori sono figli di una grande tradizione. Wajda e Kieslowski hanno tracciato la via di Pawlikowski, che ora, con la statuetta dell’Academy in mano, guida un gruppo affiatato di cineasti. «Ci sosteniamo reciprocamente» racconta parlando di «gilda di artisti». Una comunità sotto il segno di un’arte che arriva al pubblico senza passare da Hollywood.
Diverse sono però le idee guida del governo, che guarda invece ai grandi Studios, apre le porte a Bollywood e ha recentemente creato il WDFiF. Un unico studio che riunisce le piccole realtà di produzione finanziate dallo stato. Una centralizzazione su modello del Roskino russo.
La trasformazione del paese in un grande set a disposizione di tutti ha creato qualche attrito. Poco prima che la pandemia fermasse le produzioni, a pochi chilometri dalla capitale i cittadini hanno intrapreso una strenua lotta in difesa di un ponte da tempo inutilizzato. Il nuovo “Mission Impossible” progetta di farlo esplodere dietro a Tom Cruise. Il produttore ha parlato di «trattative con il Ministero della Cultura», promettendo una “rivitalizzazione” dei luoghi utilizzati per le riprese. La decisione è molto probabilmente già stata presa. Il cinema è nei progetti del governo un dépliant per turisti. E sembra funzionare.
Una delle produzioni più costose di Bollywood, “Kick”, ha scelto Varsavia come set internazionale. Il presidente dell’organizzazione turistica polacca spera che il progetto abbia un impatto sulla comunità indiana, invitata a visitare la capitale dove le sue stars hanno recitato.
La Polonia è strattonata, con ottimi risultati, dai grandi progetti del cinema internazionale. Ma il suo pubblico non ignora la “gilda”. Nel 2018 il 33% dei biglietti venduti riguardavano un film polacco. Secondo Krzysztof Zanussi, regista tra i più noti, il cinema è inscritto nella storia del paese. Perché quando non si potevano acquistare oggetti «la gente si è rivolta a beni immateriali: film, arte e solidarietà umana». Per questo Varsavia si afferra alla settima arte. È uno strumento della memoria, soprattutto di chi è sopravvissuto alle tragedie della guerra.
Film come “The Pianist”, “Jacob the Liar” e “Run Boy Run” condividono lo stesso discorso. I racconti sull’insurrezione del ghetto di Varsavia cercano nel grande schermo un ordine storico in cui inserire la città. Per il suo capolavoro, Roman Polanski ha adattato la vita di Władysław Szpilman. Pianista di Varsavia a cui il film dedica una poesia di immagini. Alle riprese negli studios Babelsberg di Berlino, il regista ha alternato incursioni urbane tra il distretto di Praga e il Sobborgo di Cracovia. La città si offre al contesto e il cinema ne estrae le storie più significative.
A volte non servono nemmeno le cineprese. L’ultimo documentario di Eric Bendarski aggiunge un tassello al racconto del passato della città. Il regista, che a Varsavia ha dedicato anche un film che parla di luci al neon, ha recuperato il filmato di un campo di concentramento. Un 8mm, non girato dai tedeschi ma da un motociclista che riuscì a riprendere il più grande ghetto d’Europa. Una rarità che squarcia le immagini propagandistiche della macchina nazista. In quegli anni unica narratrice di questi luoghi di morte. “Warsaw: A City Divided” ricuce la storia in un frammento di film. Alle riprese restaurate, Bednarski monta visioni della Varsavia moderna.
Il tempo attraversa la città, è uno strumento per i suoi registi. Per il film successivo all’Oscar, “Cold War”, Pawel Pawlikowski ha scelto di raccontare la vita dei suoi genitori. Una storia d’amore tragica e toccante che elegge Varsavia a simbolo di un tempo. Quello della cortina di ferro e di “24.000 baci” di Celentano che sorpassa la guerra fredda e accompagna con straniante efficacia un film unico. Ogni capitolo della storia è distanziato da un’ellissi. Sullo schermo nero trascorrono gli anni. “Cold War” è un film in bianco e nero. Come “Roma” di Cuaron, che nel 2017 ha soffiato al regista di Varsavia il suo secondo Oscar.
C’è chi però con la storia ci gioca, sognando realtà parallele. È il caso di Agnieszka Holland e la sua “1983”. Serie tv Netflix che sogna una Polonia ancora sotto il giogo del comunismo. Può ricordare “The Man in the high castle”, serie Amazon tratta dal racconto di Philip Dick in cui il Nazismo non è mai stato sconfitto. Ma la prima serie tv Netflix prodotta in Polonia svela nella distopia una paura mai scomparsa.
In mano ai più giovani, quest’ossessione per il tempo prende il nome di Reminescence Bump, la cui definizione introduce “All these sleepless night” di Michał Marczak. Classe 1982, il regista di Varsavia non ha ricordi della guerra o del comunismo. La sua rielaborazione è un lavorio intimo. Lascivo e sfuggente il suo film inquadra una generazione. Sembra un racconto di fantasia, ma tenta le vie del documentario. Comprendere la natura di “All these sleepless night” è parte della visione. A tratti, in campo appare il cameraman, riflesso in qualche specchio. Ci ricorda la finzione, ma non spezza la credibilità a cui il film vuole attenersi.
Seguiamo due ragazzi lungo le loro scorribande notturne. La città, poco prima del tramonto, è loro. Camminano, smaltiscono l’alcol e cercano qualcosa che li smuova. Conquistano il centro della strada, nessuno può fargli niente. Quando un autobus rischia di investirli assistiamo a un pericolo apparente. Il film stacca un attimo prima dell’impatto e i suoi protagonisti si salvano con il montaggio. Varsavia in quelle ore è un’altra città. «Non hai mai visto la cima di quell’edificio, perché di giorno guardi le persone», si raccontano nei primi attimi del mattino.
Pawlikowski sostiene di aver raccontato i propri genitori perché un amore come quello, oggi, non potrebbe esistere. «Troppo rumore». La nuova generazione ha però la soluzione. Conosce gli orari in cui ritrovare il silenzio, e incontrare figure tra la veglia e il sonno. Come lo spazzino notturno, mostrato a definire un’architettura a sé. «Siamo gli dei della città» urlano a occhi chiusi. Se non si guardano possono persino crederci. Ma alla fine, Michał Marczak non può esimersi dal riportare questa sospensione sotto la luce del giorno. Il protagonista balla per strada, le macchine lo sfiorano e la città lo avvolge.