Gli Stati membri attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione e nel contesto degli indirizzi di massima delle istituzioni europee. Il Trattato impone però di considerare le proprie politiche economiche una questione di interesse comune e coordinarle nell’ambito del Consiglio.
Emerge fin da subito, dunque, una contrapposizione con uno dei principi cardine del sovranismo: la politica economica è e deve rimanere una questione nazionale. Ne discende una conflittualità latente che si manifesta in tutte le situazioni nelle quali le scelte del governo sono sindacate dalla Commissione. Il che può avvenire con una certa frequenza, tenuto conto che le politiche economiche, di bilancio e strutturali sono coordinate nell’ambito della procedura di sorveglianza multilaterale (introdotta con il cosiddetto «semestre europeo») allo scopo di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche, in linea con il patto di stabilità e crescita, e prevenire eccessivi squilibri macroeconomici. Controllo che diventa ancora più incisivo al momento della presentazione della legge di bilancio. Basti ricordare la lunga e penosa diatriba ai tempi del governo Conte I per riportare al 2 per cento il rapporto deficit/PIL, inizialmente stimato al 2,4 per cento (alla fine, nel 2019, è stato appena dell’1,6 per cento, per effetto di varie entrate una tantum, della manovrina di primavera e della continua riduzione della spesa per interessi).
Non va d’altra parte dimenticato che il conflitto perenne con le istituzioni europee avrebbe potuto deflagrare con esiti imprevedibili e ancora peggiori. Anche se i trattati non prevedono la possibilità di una fuoriuscita dall’euro, in quei mesi è stata più volte paventata da esponenti di spicco dei partiti della maggioranza di governo giallo-verde come un’ipotesi verosimile, magari indotta giocoforza dagli altri Stati membri. In realtà, sappiamo bene che recesso unilaterale o espulsione sarebbero, rispettivamente, illegittimo e inammissibile; tutt’al più, sarebbe concepibile un recesso dall’Unione (Brexit docet) o, con una modifica dei trattati, la fuoriuscita consensuale dall’eurozona.
Ma come si ricorderà, è bastato il semplice sospetto a determinare un’impennata dello spread, rimasto tra 150 e 200 punti base al di sopra dei livelli precedenti per tutta la durata del governo Conte I. Lo spread è la misura della fiducia nei confronti di un Paese: l’aumento della tensione e dell’incertezza, dunque, non è solo una faccenda politica. Produce conseguenze immediate e misurabili sui mercati, sul costo del credito e sul rendimento dei titoli di Stato (e dunque sulla spesa pubblica per servire il debito e la pressione fiscale per finanziarla). Quando un governo alimenta il sospetto di voler cercare la rottura (come ha fatto talvolta il Conte I e come fece, per esempio, la Grecia ai tempi di Tsipras e Varoufakīs) anche le normali discussioni con la Commissione, più che uno strumento per ottenere un risultato concreto, rischiano di diventare un semplice pretesto per rivendicare il diritto a sbarazzarsi dei vincoli.
Secondo alcune stime, il maggior costo dovuto al rialzo dello spread per le emissioni di titoli di Stato durante i quattordici mesi di governo Lega-M5S sarà di circa venti miliardi di euro nell’arco dei prossimi vent’anni. Ma questo non preoccupa i sovranisti che, anzi, ne approfittano per rafforzare la narrazione dei poteri forti che tramano contro il governo del popolo. L’isolamento politico, economico e mediatico viene utilizzato per consolidare il consenso interno.
Anche il tema della concorrenza diventa frequente terreno di scontro. I sovranisti vorrebbero avere le mani libere per intervenire sul salvataggio di banche e imprese nazionali decotte e malvolentieri sopportano di doversi confrontare con Bruxelles, che impone il rispetto della disciplina sugli aiuti di Stato. Nel caso delle banche in dissesto, il problema è politicamente molto spinoso perché gli aiuti pubblici possono essere erogati solo qualora anche azionisti e creditori subordinati sopportino parte degli oneri per il risanamento (cosiddetto burden sharing). Il che crea un diffuso malcontento nell’elettorato tradizionale dei partiti sovranisti. Se poi la crisi dell’istituto bancario è irreversibile, scatta la risoluzione della banca con il meccanismo del bail in, che comporta pesanti perdite per azionisti, obbligazionisti e correntisti (quelli che detengono conti con più di centomila euro), scatenando l’astio antieuropeista. La conflittualità in tema di concorrenza riguarda anche le liberalizzazioni, che possono pregiudicare le posizioni di rendita godute da alcune particolari categorie sociali che si riconoscono politicamente nei partiti sovranisti (tassisti, concessionari demaniali delle spiagge ecc.).
Ma – per la verità – quest’ultimo è un male comune a tanti altri partiti che si sono succeduti al governo in questi anni. In tema di politica commerciale, trattandosi di una competenza esclusiva della UE, non c’è nulla da fare per i governi nazionali, ma questo non ha impedito a leader come Matteo Salvini di promettere l’applicazione di irrealizzabili dazi a protezione dei prodotti italiani o di innescare polemiche contro la Commissione per fantomatiche invasioni di carne agli ormoni e olio tunisino. In tal modo, si inquina il dibattito pubblico, facendo della normale dialettica democratica non più il metodo privilegiato per scegliere tra diversi orientamenti valoriali, ma una gara a chi la spara più grossa.
Sebbene l’esagerazione propagandistica sia un tratto peculiare della comunicazione politica, soprattutto in campagna elettorale, la perdita di contatto con la realtà produce disaffezione quando poi gli elettori vedono che nessuno ha mantenuto le promesse. Non solo, scatena una pericolosa rincorsa dei cittadini verso quelle forze che si ostinano a proporre soluzioni tanto apparentemente facili quanto concretamente sbagliate. Quel che è peggio è che il progressivo scivolamento dell’opinione pubblica verso il populismo ha degli effetti anche sui partiti più tradizionali, che rischiano così di diventare, anziché parte della soluzione, parte del problema.
E ancora, per quanto attiene al controllo delle frontiere, ci si lamenta di essere lasciati soli a contrastare il fenomeno, ma ci si guarda bene dal cedere sovranità affinché la gestione del problema sia affidata a organismi multilaterali. Men che meno si accettano le condizioni imposte sull’uso dei fondi erogati per prevenire gli sbarchi degli immigrati irregolari.
È chiaro che non poche di queste controversie potrebbero rientrare nella fisiologia di un confronto aspro ma costruttivo con l’Europa, ma vi è una scelta precisa a monte che cerca l’escalation della conflittualità. Insomma, si ha la netta impressione (o la certezza?) che quelle dei populisti siano proposte politiche contro l’Europa più che per i propri cittadini.
Da “Contro il sovranismo economico” di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, in libreria per Rizzoli dal 4 agosto.