A poche ore dalla chiusura delle liste elettorali per le regionali gli alleati di governo non riescono a trovare unità d’intenti sulle candidature, nonostante il tentativo di alcuni esponenti. L’ultimo in ordine cronologico è stato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che in un’intervista al Fatto quotidiano ha detto di trovare «ragionevole che le forze politiche che sostengono il governo provino a dialogare anche a livello regionale». Sottolineando poi che soprattutto in Puglia e nelle Marche, le due regioni considerate ancora in bilico, «presentarsi divisi espone al rischio di sprecare una grande occasione».
È la stessa linea che aveva proposto qualche giorno prima il segretario dem Nicola Zingaretti: «Alleati, e non avversari alle regionali di settembre». Poi seguita dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che aveva parlato di «un nuovo percorso, sulla base di un lavoro che stiamo portando avanti al governo centrale».
Tra gli esponenti marchigiani e pugliesi dei due partiti, però, non mancano le voci contrarie. Se il Partito democratico, soprattutto nelle ultime settimane, ha ricordato a tutti quanto possano essere divergenti le correnti al suo interno, per il Movimento cinque stelle è più insolito.
Il candidato pentastellato nelle Marche, Gian Mario Mercorelli, ha risposto al premier con un post su Facebook: «Ci vuole coerenza nelle scelte, devono susseguirsi le une alle altre e definire e delimitare un progetto. È stato coerente scegliere di correre da soli? Penso di sì. Sarebbe coerente oggi, a 48 ore dal deposito delle liste, cambiare parere? Penso di no».
Idem per la candidata grillina in Puglia Antonella Laricchia: «Più importanti dei miei vantaggi personali (mi hanno promesso poltrone certe, prestigio assicurato) o di Giuseppe Conte (una maggioranza parlamentare teoricamente più rinsaldata), ci sono gli interessi dei pugliesi».
La sensazione è che i due principali partiti dell’esecutivo non abbiano argomenti per convivere in una tornata elettorale locale, se non in Liguria, dove però il candidato Ferruccio Sansa sembra avere uno svantaggio incolmabile rispetto al governatore uscente Giovanni Toti.
«Se l’alleanza di governo non si è presentata compatta in tutte le regioni da subito è anche per non permettere all’avversario di strumentalizzare il voto», dice a Linkiesta il politologo dell’Istituto Cattaneo Marco Valbruzzi. «Poi ovviamente perché è un’alleanza tra due forze deboli che hanno creato un soggetto politico ugualmente debole, quindi incerto. E c’entra anche il timore per le prime elezioni in pandemia, con campagne elettorali difficili da interpretare».
Al momento l’incertezza sembra essere questione di poche regioni al voto. Un sondaggio di Dire-Tecnè rivela che in Veneto la partita non è mai stata aperta, con Luca Zaia che potrebbe superare quota 70 per cento; in Liguria Giovanni Toti ha circa 8 punti di vantaggio su Sansa; mentre in Campania e in Toscana il centrosinistra è avanti, con Vincenzo De Luca ed Eugenio Giani che staccano di almeno 5 punti gli sfidanti Stefano Caldoro e Susanna Ceccardi.
Più incerta la partita in Puglia e nelle Marche, in teoria. Ma il co-fondatore di YouTrend Giovanni Diamanti offre una prospettiva differente: «La Puglia è in bilico, nelle Marche Francesco Acquaroli è in vantaggio, soprattutto dopo il voto delle ultime europee (i tre partiti del centrodestra intorno al 50 per cento, ndr). Un vantaggio che si potrebbe assottigliare in caso di alleanza tra dem e Cinquestelle, ma non per forza: in politica 1+1 non sempre fa 2, magari fa 1,2».
Un accordo che, in ogni caso, ha senso solo nelle regioni in cui c’è una partita da giocare, dice Diamanti: «La vera difficoltà di Partito democratico e Movimento è che c’è molta tattica e poca strategia nell’alleanza. Non c’è un disegno, il fatto che ci siano accordi variabili di regione in regione mostra che l’alleanza è debole, e fare alleanze come in Umbria, senza numeri, non serve a sperimentare, ma a uccidere sul nascere questi progetti».
Il voto di settembre non necessariamente avrà riverbero a livello nazionale, «ricordo che nel 2005 le regionali finirono 12 a 2 per il centrosinistra ma non ci furono esiti particolarmente negativi per il governo di centrodestra», dice Diamanti. Ma l’immagine restituita in questi giorni dai due partiti rischia di presentare il conto sul lungo periodo.
Come dice a Linkiesta lo storico e politologo Giovanni Orsina, «questo opportunismo del governo è lo stesso che ha portato alla sua nascita: un accordo nato per evitare di consegnare il paese a Salvini, che ci può stare. Ma il problema è che in un anno al governo non è stato aggiunto nulla politicamente, dando la sensazione di un matrimonio tra due coniugi che non conoscono ancora bene le ragioni per cui stanno insieme. Gli elettori non sono ciechi, notano le incoerenze. E i partiti stanno già pagando: i Cinquestelle con un consenso passato dal 34 al 17 per cento in due anni, il Partito democratico che non cresce più».
L’unica carta a favore di quest’alleanza incerta è l’assenza di alternative concrete, almeno per il momento. «Il problema è quale può essere la conseguenza per il governo in caso di sconfitta. Perché un’alleanza governo che non sta in piedi per la sua forza, ma per la mancanza di alternative, anche in caso di débâcle preferirà rimanere allo status quo. Perché per nessuno dei suoi attori c’è uno scenario migliore di questo», conclude Orsina.