Dopo giorni di negoziati, il 21 luglio il Consiglio europeo è riuscito ad approvare il NextGenerationEu, pensato per far fronte a livello comunitario alla crisi economica generata dal coronavirus in Europa. I punti di scontro tra i Paesi membri per la sua approvazione sono stati diversi, ma gli Stati sono stati in grado di mettere da parte le divergenze per raggiungere un obiettivo comune. Non tutti i nodi legati al fondo per la ripresa però sono stati sciolti e il tempo per risolvere le questioni rimaste in sospeso non è tanto, se si considera che i fondi inizieranno a essere erogati dalla metà del 2021.
Uno dei punti su cui si continua a dibattere – anche se in maniera latente – riguarda il collegamento tra l’invio dei fondi e il rispetto da parte dei Paesi riceventi dello stato di diritto europeo e dei valori fondamentali su cui la Comunità si fonda. La questione aveva inasprito i rapporti tra Polonia e Ungheria e il resto dell’Ue e sembrava si fosse conclusa con una vittoria di Varsavia e Budapest. In realtà la partita è ancora aperta e l’Ue potrebbe usare questo meccanismo anche per tutelare la libertà di stampa ungherese.
L’Ungheria e la libertà di stampa
Di recente si è tornati a parlare del problema della libertà di stampa e della quasi totale assenza di pluralismo nei media ungheresi a seguito della vicenda che ha interessato il giornale online Index, una delle poche testante ancora libere dal controllo governativo. A fine luglio il comitato redazione del giornale ha presentato le sue dimissioni e altri 70 giornalisti hanno preso la medesima decisione in segno di protesta contro le pressioni che la testata stava subendo.
Pochi giorni prima il direttore di Index, Szabolcs Dull, era stato licenziato con un pretesto dopo aver denunciato la perdita di indipendenza del giornale a causa delle decisioni prese dal magnate Miklós Vaszily. L’uomo, molto vicino al presidente Viktor Orbán, è una figura di spicco del mondo dell’informazione: già manager di Origo – un’altra testata considerata indipendente fino al 2014, anno in cui Vaszily licenzia il caporedattore Gergö Sáling – l’imprenditore filo-Orbán ha di recente acquistato il 50 per cento delle quote della società che vende la pubblicità a Index, la Indamedia.
Da qui in poi il piano è semplice. Approfittando del particolare momento di crisi causato dal coronavirus, Vaszily – secondo quanto denunciato da Dull – inizia a fare pressioni affinché il giornale cambi opinione nei confronti del Governo. In caso contrario, le entrate pubblicitarie continueranno a diminuire. Per assicurarsi che Index segua le sue direttive, Vaszily assume un consigliere per gestire le spese della redazione, ma il cui compito in realtà è quello di controllare i giornalisti. Dull reagisce informando i lettori su quanto sta accadendo all’interno della redazione e viene licenziato.
Ma il caso Index è solo l’ultimo esempio dei problemi legati alla libertà di stampa in Ungheria. A destare preoccupazioni è anche il conglomerato Kesma (Fondazione stampa e media dell’Europa centrale), diretto da Gábor Liszkay e che raggruppa circa 500 media tra canali tv e radio, giornali e siti di informazione online. L’azienda è vicina al presidente Orbán e non a caso è stata esclusa dalla giurisdizione dell’Autorità garante della concorrenza grazie a un decreto ad hoc ritenuto legale dalla stessa Corte costituzionale.
La battaglia è ancora aperta
Le politiche di Orbán miranti a eliminare la libertà di stampa e a mettere a tacere l’opposizione, nonché altre misure adottate dal presidente, sono in contrasto con i valori fondanti dell’Unione, come è stato più volte evidenziato. La questione è tornata sul tavolo europeo durante le discussioni per l’approvazione del NextGenerationEu e in particolare per quanto riguardava la proposta di legare l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto comunitario.
A schierarsi contro questa clausola sono stati principalmente Ungheria e Polonia, che hanno interpretato il meccanismo come una minaccia diretta al loro modo di governare. Alla fine Varsavia e Budapest erano riuscite a far valere le proprie ragioni, o almeno così sembrava stando alle parole di Orbán.
In realtà la questione non è così semplice come il presidente ungherese vuole far credere. Le conclusioni dell’accordo raggiunto tra gli Stati membri, nello specifico nei punti 22, 23 e 24, prevedono la possibile introduzione di un meccanismo da attivare in caso di violazioni di stato di diritto. A far presente questo dettaglio e a chiamare in causa la Commissione europea è stato Renew Europe. Il gruppo parlamentare liberale, in un documento pubblicato a fine luglio, ha avanzato delle ipotesi interessanti che prevedono non solo l’imposizione di sanzioni in caso di violazione dello stato di diritto, ma anche che la Commissione possa gestire direttamente o indirettamente i fondi comunitari dei Paesi che violano i valori europei per un periodo di tempo delimitato.
Applicando questo metodo al caso ungherese, la Commissione potrebbe accertarsi che i fondi comunitari siano equamente distribuiti, garantendone l’accesso anche a quei media indipendenti che secondo le opposizioni rischiano di non ricevere alcun finanziamento. Il timore infatti è che Orbán utilizzi il NextGenerationEu per favorire solo i soggetti a lui vicini.
A ritornare su questo argomento recentemente è stato anche il ministro per gli Affari europei francese, Clément Beaune, che in un’intervista al Financial Times ha assicurato che Parigi spingerà per garantire l’approvazione di un meccanismo che tuteli lo stato di diritto in relazione all’accesso ai fondi europei. Una posizione condivisa anche da Olanda e Paesi del Nord Europa e dalla parlamentare europea ungherese di Renew Europe, Katalin Cseh, che aveva chiesto all’Ue di controllare il flusso di denaro diretto in Ungheria e intervenire a protezione dei media indipendenti.
A differenza di quanto affermato da Orbán, quindi, Bruxelles può ancora legare il rispetto dei valori europei all’erogazione dei fondi comunitari. Quello che serve adesso, come ricordato da Beaune, è un accordo tra Stati membri, Commissione e Parlamento sulle condizionalità del pacchetto europeo e – soprattutto – la volontà politica di dimostrare che l’Ue «non è solo un mercato, ma un progetto culturale e politico».