Viktor Orbán ha ottenuto l’epurazione di uno degli ultimi siti d’informazione indipendenti rimasti in Ungheria, Index.hu, proprio all’indomani dello «storico» vertice in cui finalmente – così si diceva – le grandi democrazie del continente avrebbero rilanciato il «sogno europeo».
La coincidenza temporale chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio quanto fossero stringenti le condizioni poste a quel tavolo sulla tutela dello Stato di diritto, e conferma i rapporti di forza attuali in Europa tra sostenitori della democrazia liberale, guidati da Germania e Francia, come si vede non senza timidezze e contraddizioni, e fautori della «democrazia illiberale», guidati da Ungheria e Polonia.
Non per niente Orbán è stato tra i grandi elettori di Ursula von der Leyen (la famosa «maggioranza Ursula» presa a modello in Italia andrebbe forse studiata meglio) e ha fatto pesare il suo appoggio anche al tavolo dell’ultimo Consiglio europeo. Ma quello che dovrebbe preoccuparci di più è il fatto che nell’Europa di oggi un governo possa perseguire apertamente l’obiettivo di costruire uno Stato autoritario, soffocare la libertà di stampa, mettere sotto controllo il potere giudiziario, e non solo continuare a essere ricevuto con tutti gli onori nei vertici europei, ma essere persino preso a modello, e apertamente elogiato, dai leader più in vista della destra italiana, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni.
Di sicuro, almeno a noi italiani, dovrebbe preoccuparci moltissimo il fatto che di tutto questo nel nostro paese sembri non fregare niente a nessuno, come se il problema non esistesse o non ci riguardasse. Una minimizzazione figlia probabilmente di schematismi anacronistici, come la vecchia contrapposizione tra una sinistra riformista disposta al dialogo con il centrodestra berlusconiano e un’ala intransigente ostile a ogni impuro contatto.
Così oggi da una parte Carlo Calenda continua a ripetere ogni due minuti che «Salvini non è Orbán» e dall’altra Matteo Renzi si diverte a stracciare l’accordo su una revisione della legge elettorale in senso proporzionale alla vigilia del referendum sul taglio dei parlamentari, precostituendo di fatto le condizioni ideali per il definitivo sprofondamento dell’Italia in una democratura in stile russo-ungherese (torsione maggioritaria implicita nella riduzione dei seggi + legge maggioritaria = chi vince prende tutto, si riscrive la Costituzione e si prende ogni carica di garanzia, alla faccia della divisione dei poteri).
In aprile, dunque ben tre mesi prima dell’ultimo Consiglio europeo, il prestigioso mensile americano Atlantic pubblicava un articolo di Yasmeen Serhan dal titolo «L’Ue sta a guardare mentre Orbán uccide la democrazia», in cui si sottolineava l’ipocrisia di un’Unione che predica i valori dello Stato di diritto mentre uno dei suoi membri se ne fa beffe apertamente. E ne traeva la seguente conclusione: «Non c’è niente che impedisca a politici di altri stati membri dell’Ue come l’italiano Matteo Salvini, attualmente all’opposizione ma già vice primo ministro e ora in corsa per la premiership, di pensare che un giorno potrebbero fare lo stesso».
Il fatto che per trovare qualcuno che mostri una simile preoccupazione si debba prendere un mensile americano è già di per sé motivo sufficiente per preoccuparsi. Tanto più considerando l’aperto sostegno che la Lega ha dato a Orbán, proprio in questi giorni, nella sua battaglia contro norme che vincolassero i fondi europei al rispetto dello Stato di diritto.
Il fatto poi che negli stessi giorni in cui si schiera contro lo Stato di diritto in Europa Salvini ne invochi il rispetto in Italia, per difendere se stesso e l’indifendibile Attilio Fontana, non può stupire: un simile doppio standard è l’essenza stessa del populismo (di cui il salvinismo è la versione parossistica, con il suo ubriacante mix di secessionismo e nazionalismo, liberismo e statalismo, garantismo e giustizialismo).
In un libro appena uscito, giustamente elogiato e pluri-recensito su tutti i giornali del mondo, «Twilight of democracy», Anne Applebaum denuncia il rischio di vedere tramontare la democrazia in occidente, proprio come sta già tramontando in Ungheria e in Polonia, sua seconda patria. Molto istruttiva, soprattutto per noi italiani, è la descrizione di quel variegato milieu di politici, giornalisti, burocrati e blogger – anche di seconda o terza fila, ma certo né poveri né ignoranti, insomma ben diversi dal cliché dei sostenitori del populismo provenienti dalle periferie disagiate – pronti a sostenere con entusiasmo il nuovo autoritarismo. Anzi, strumento indispensabile della sua affermazione.
Il racconto di Applebaum parte da una festa di capodanno del 1999, a casa sua, in Polonia, perché molti degli invitati oggi, incrociandosi per strada, neanche si saluterebbero, e paragona il solco scavatosi tra loro nel frattempo a quello che divise gli intellettuali europei negli anni trenta.
Per fortuna la storia non si ripete mai uguale a stessa. O almeno questo è quello che finora la storia sembrerebbe averci insegnato, e che dobbiamo augurarci, perché le precondizioni per rivivere i momenti più bui del secolo scorso ci sarebbero tutte.
D’altra parte, se lo slittamento su posizioni antidemocratiche, nazionaliste, autoritarie e spesso anche apertamente antisemite ha diviso irreparabilmente gli intellettuali conservatori degli anni novanta, e non solo in Polonia, si può forse ancora sperare che quello stesso sommovimento induca altri politici, giornalisti, burocrati e blogger prima lontani a venirsi incontro e a unire le forze.
Perché questo possa accadere occorrerebbe però una chiara coscienza del pericolo, e di conseguenza una coerente scala di priorità. In Italia, dove la situazione è resa particolarmente complicata dal ruolo supremamente ambiguo giocato dal Movimento 5 stelle, il dibattito in corso sui giornali, nei partiti della maggioranza e tra gli intellettuali di riferimento, obiettivamente, non autorizza soverchio ottimismo.