Incredibilmente, Palermo, la città che gli spagnoli per ostinazione araldica pretendevano Felicissima, potrebbe ora avviarsi a diventare addirittura la Woodstock degli anti-covid, meglio, la zona franca, la Gibilterra degli “anticòviddi”. Segni premonitori, in questo senso, pulsano da molte settimane. Dapprima un signore “attenzionato” dalle forze dell’ordine dall’alto di un elicottero, l’uomo è intento a prendere il sole sulla spiaggia di Mondello in pieno lockdown, assolutamente maldisposto nell’abbandonare il telo di spugna, se non con piccato malumore.
Infine, settimane dopo, giunge l’apoteosi delle certezze, a rigorosa chiusura cessata, in uno scenario di apparente tranquillità, sempre lì in spiaggia a Mondello, d’improvviso una signora, a favore di telecamera, pronuncia una frase destinata a iscriversi sul cartiglio del dubbio circa l’esistenza stessa del coronavirus, proprio muovendo dalla convinzione dell’inviolabilità cittadina, «Non ce n’è còviddi».
Non c’è persona che non abbia fatto proprio quel motto, perfino in ambito dolomitico… «Non ce n’è còviddi» – «Non ce n’è còviddi…», lo si sente risuonare pure tra idiomi non esattamente sicano-romanzi, esatto: «Non ce n’è còviddi…». Poi, d’improvviso, nuovi bagliori sinistri squarciano il quotidiano della pandemia: un’inerme giornalista filma con il proprio cellulare la tendopoli innalzata da chi, camusianamente certo che nulla valga più di un’estate invincibile, viene aggredita dagli occupanti, la malcapitata dirà d’essere stata salvata dai carabinieri, giunti prontamente a Barcarello.
Barcarello, sia detto per chiarezza topografico-balneare, a Palermo è sinonimo di elegia estiva, i suoi scivoli di cemento a ridosso del mare. Cosmodromo cittadino pronto ad accogliere la voglia di abbronzatura indigena, piacere principe per i palermitani.
«Nessuno è intervenuto a difendermi», confesserà la persona che sbirciava nella Macondo marinara posta nel dominio di Sferracavallo. «Mi volano gli occhiali e loro continuano a insultare e colpire. Contro di me anche testate. Sono piena di lividi ed escoriazioni, ma quello che mi ferisce di più è l’indifferenza. Ho chiesto aiuto, un signore che era lì mi ha detto ‘no’… Avvilente». Ancora le cronache locali: «Nonostante l’ordinanza firmata dal sindaco per vietare eventi aggregativi in città dalle ore 19 al fine di evitare la diffusione del Coronavirus e un cartello all’ingresso con la scritta ‘divieto di campeggio’, gli accampamenti sono lì, come un qualsiasi Ferragosto».
Tutti pronti per passare la notte in spiaggia. «Non ce n’è Covid», esclamano ad alta voce alcune signore che fanno il bagno, alzando il braccio in segno di vittoria e citando il tormentone negazionista che, partito da Palermo, ha avuto risalto in tutta Italia. Non è tutto: «Sulla spiaggia centinaia di persone che cantano. Nei gazebo allestiti per l’occasione e nei primi accampamenti, di colori variopinti, gente seduta intorno a un tavolo che mangia o gioca a carte. Tutti vicini tra loro e senza nessuno che indossi la mascherina. ‘Andate a fotografare il sindaco Orlando piuttosto che noi’, dice infastidito qualcuno dei campeggiatori».
Singolare, o forse frutto di un magico sortilegio mondano, che ciò sia accaduto in concomitanza con l’anniversario tondo, cinquant’anni, del “Palermo Pop 70”, il festival che avrebbe dovuto trasferire definitivamente lo spirito hippy proprio sotto Monte Pellegrino, «il più bel promontorio d’Europa», nelle parole di Goethe.
Con i nostri occhi ricordiamo i venditori di cibo di strada piazzati in quei giorni lungo il litorale di Mondello: “Panelle all’hashish!”, così cantavano, garantivano. Un libro ne racconta ora i fasti e l’amarezza per un seguito che non avrà mai luogo, storie, personaggi, retroscena di un evento straordinario inciso nell’ideale Albero della Libertà giovanile cittadina, “Quando Palermo sognò di essere Woodstock” di Sergio Buonadonna (Navarra editore). Tutto si concluse quando il cantante Arthur Brown prese a nudarsi sul palco, finendo arrestato da Boris Giuliano, futuro martire dell’antimafia, e ancora il cantastorie Franco Trincale cui viene tolto l’audio dalla questura perché colpevole di cantare contro Nixon e la guerra del Vietnam.
Sul palco, tra gli altri, Duke Ellington, Aretha Franklin, Johnny Halliday, i Colosseum, i Black Sabbath, gli Exseption davanti a centomila giovani. Accadde dal 17 al 19 luglio 1970. Un cartello annunciava anche i Led Zeppelin, che però non arrivarono mai.
Anzi, dovevano esserci pure i Pink Floyd e i Rolling Stones, sembra che l’organizzatore Joe Napoli abbia cercato di convincere Mick Jagger con parche parole: «Vieni in Sicilia a disintossicarti». Questo per dire che periodicamente, puntualmente, testardamente Palermo si candida a essere nuovamente di qualcosa capitale, a restituire una nuova primavera, in quest’ultimo caso a mostrarsi sede del regno dell’anti-coronavirus, perché «non ce ne còviddi!».
Ciò che altrove assume un valore turistico nella Conca d’Oro diventa un significato ben più profondo, nella convinzione che l’unicità cittadina non abbia nulla da temere dalla sorte, ancor meno da virus o bacilli. Non è forse vero che la patrona, Santa Rosalia, eremita, nel 1625 ebbe a salvare la città dalla peste? Per il suo culto, ultimamente sono perfino tornati i ventagli, le bandierine, le “banniricche” che ne innalzano il volto cinto di rose, tra teschio, scodella, libro e saio, perché «non ce n’è còviddi qui!» Vivere convincendosi superiori al resto del creato, ammantarsi di supponenti illusioni siciliane. Non ce ne còviddi!, un brand ormai.