Il 7 agosto sarà ricordato come il “venerdì nero” di Varsavia. Nel giro di poche ore la capitale della Polonia è diventato teatro di violenza e repressione non solo verso le persone Lgbti ma anche verso chi manifesta il proprio dissenso a quanto incarnato dal governo Kaczyński. Al conservatorismo nazionalista e sovranismo, cioè, esasperati nelle campagne elettorali previe alle elezioni politiche (13 ottobre 2019) e presidenziali (28 giugno, 12 luglio 2020) dai temi dello sbaragliamento della «pericolosa ideologia Lgbti» e della difesa della famiglia tradizionale intesa anche in termini di ulteriori restrizioni dei diritti delle donne a partire da quelli concernenti la salute sessuale e riproduttiva.
Contro tutto ciò stavano protestando venerdì a Varsavia centinaia di persone. O, più precisamente, contro la carcerazione preventiva di chi, negli ultimi due mesi, è divenuta il simbolo di tale duplice battaglia: Margot Szutowicz, attivista transgender del collettivo radicale, queer, femminista Stop Bzudrom (Stop alle cavolate, ndr).
La scorsa settimana Margot era stata già arrestata, insieme con Łanię Madej e una terza componente del collettivo, per aver collocato, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, bandiere arcobaleno e bandane rosa recanti simboli transfemministi e anarchici sul Cristo portacroce (icona del martirio di Varsavia per l’occupazione nazista) davanti alla chiesa della Santa Croce e sulle statue bronzee di Copernico, del maresciallo Józef Piłsudzki, di Wincenty Witos, Taras Hryhorovyč Ševčenko e della Sirena, simbolo della capitale polacca.
Un raid, questo, compiuto proprio in reazione al clima sempre più marcatamente omotransfobico e misogino, che ha toccato punte estreme in giugno durante la campagna di Andrzej Duda (poi rieletto Capo di Stato) per le presidenziali e, il 27 luglio, con l’avvio della procedura di dissociazione della Polonia dalla Convenzione d’Istanbul.
Rilasciata con le altre due attiviste, Margot è stata raggiunta il 7 agosto dalla notizia della carcerazione di due mesi, mentra era nella sede dell’associazione Lgbti Kampania Przeciw Homofobii (Kph). A motivare la misura, secondo quanto disposto dall’ufficio del Procuratore distrettuale competente, l’accusa di aver provocato danni a un furgone dell’organizzazione Pro Prawo do Życia e aver intenzionalmente spinto il conducente del mezzo.
Per essere chiari, i furgoni del citato ente pro-life, che da oltre un anno girano per Varsavia e altre città polacche, sono coperti di teloni plastificati con immagini di uomini gay ai Pride e scritte omofobe, accomunanti l’omosessualità alla pedofilia, del tipo Tacy idą po twoje dzieci. Powstrzymaj ich! (Questi vogliono i tuoi bambini. Fermali!, ndr) o Czyny pedofilskie zdarzają się wśród homoseksualistów 20 razy częściej (Atti di pedofilia accadono 20 volte più spesso fra gli omosessuali, ndr). Ma è fin troppo evidente che il vero motivo è da ricercarsi proprio nel blitz del 27-28 luglio, già bollato dal portavoce della polizia, Sylwester Marczak, come offesa del sentimento religioso, profanazione del monumento di Cristo e di simboli pubblici cittadini.
Per impedire che Margot fosse condotta in carcere si sono mobilitati in tanti nel pomeriggio del 7 agosto. Da qui l’intervento della polizia, che ha caricato, picchiato e poi arrestato 48 persone. Presente alla manifestazione di protesta anche la deputata di Lewica, Magdalena Filiks, colpita insieme col collega Maciej Gdula dagli agenti, che hanno scaraventato a terra e picchiato anche un giornalista di Radio Zet. Tra i 48 arrestati anche un nostro connazionale, Pietro B., che vive e lavora a Varsavia.
«Dopo lavoro ho fatto una passeggiata a nowy świat, la via di passeggio del centro – racconta a Linkiesta Pietro B., che per la prima volta parla di quanto successo venerdì –, e ho visto che c’erano persone in assembramento e auto della polizia. Ho intuito che fosse una manifestazione per i diritti Lgbt, avendo visto bandiere arcobaleno. Non ho preso parte attivamente alla manifestazione, ma semplicemente osservavo quello che accadeva. A un tratti un poliziotto mi ha chiesto di andare con lui e io l’ho seguito senza opporre resistenza. Erano circa le 20:30. Secondo loro avrei “partecipato attivamente alla manifestazione” e “attentato all’incolumità di un pubblico ufficiale”, cose assolutamente non vere».
Pietro B è stato rilasciato sabato sera dopo essere stato ascoltato dal giudice: gli è stato comunque prescritto l’obbligo di firma due volte alla settimana in attesa dell’apertura di un procedimento penale a suo carico. Per lui si è subito mobilitato il sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione internazionale, Ivan Scalfarotto, che ha contattato prima il nostro ambasciatore a Varsavia, Aldo Amati, quindi l’ambasciatrice della Repubblica della Polonia in Italia, Anna Maria Anders, «per significare a lei e al governo di Varsavia la […] profonda preoccupazione per i fatti di ieri, con l’arresto del nostro connazionale e, in più in generale, per i diritti e la sicurezza della comunità Lgbti in Polonia».
Simile sentimento ha espresso a Linkiesta Luisa Rizzitelli. «La situazione in Polonia – così la portavoce di Rebel Network. Rete femminista per le donne – è gravissima e suscita sgomento tra tutti noi attivisti e attiviste per i diritti umani. I vertici europei, dopo gli arresti e le cariche durante la manifestazione, non possono non sentirsi in dovere di intervenire con provvedimenti ben più pesanti e conformi a quanto sta accadendo. Ritengo inoltre sia arrivato il momento che ogni Paese Ue faccia sentire la propria voce al Governo “nero” della Polonia, perché la repressione contro liberi cittadini e cittadine europei è inaccettabile».
Per l’intellettuale lesbica Paola Guazzo quello del 7 agosto è «il più brutale atto di repressione Lgbti della storia dell’Europa del dopoguerra dopo l’hitleriano Paragrafo 175 (ricordo che nella sua versione austriaca dopo l’Anschluss, il Paragrafo 129, sono state perseguitate anche le lesbiche)» ed una chiara riprova «che non tutte le opinioni sono legittime e che quelle cattofasciste possono diventare odio e repressione di Stato. Mi auguro che le istituzioni europee e il governo italiano diano una risposta tempestiva, decisa e senza compromessi alla brutalità incontrollata degli apparati polacchi».
Mentre per Yuri Guaiana, presidente dell’Associazione radicale Certi Diritti e segretario di Lgbti Liberals of Europe, «la brutalità della polizia contro pacifici manifestanti lgbti il 7 agosto scorso e gli arresti arbitrari che ne sono seguiti rappresentano una svolta inusitata in un Paese membro dell’Unione Europea. Come chiedono Ilga-Europe e oltre 310.000 membri di All Out, le istituzioni internazionali devono intervenire condannando questi atti. Ma non solo: i Paesi europei che fanno strame dei diritti umani in questo modo devono poter essere sanzionati dall’Unione Europea. Da troppi anni si attende una direttiva europea che protegga le persone Lgbti in tutta Europa, è arrivato il momento che la Ue colmi questa lacuna. Domani andrò anche io a Varsavia per discutere di come fermare l’odio con Projekt:Polska e l’European Liberal Forum».
Come Ivan Scalfarotto si è detta preoccupata la deputata dem Laura Boldrini, considerando come unico attacco del governo polacco quello ai diritti delle donne e delle persone Lgbti.
«La Polonia – così l’ex presidente della Camera a Linkiesta – ha già una procedura d’infrazione aperta per il non rispetto della separazione dei poteri e il tentativo di politicizzare la magistratura. Credo che quanto sta accadendo negli ultimi tempi in riferimento ai diritti delle donne e delle persone Lgbti debba essere immediatamente attenzionato dalle istituzioni europee. Non mi sorprende che questo giro di vite sia rivolto sia alle persone Lgbti sia alle donne, perché risponde alla stessa cultura patriarcale.
Uscire dalla Convenzione d’Istanbul, come avviato il 27 luglio (lo stesso giorno del blitz di Margot e delle altre due attiviste di Stop Bzudrom) significa rimettere, in un certo qual modo, le lancette indietro e mandare un messaggio pericolosissimo. Quello, cioè, che lo Stato si disimpegna dal proteggere le donne, vittime di violenza, dal perseguirne gli autori e dal prevenire la violenza stessa. Si tratta delle famose tre “P”, che sono la base della Convenzione d’Istanbul. La Convenzione è poi importante perché specifica che tale approccio delle tre “P” (proteggere, perseguire, prevenire) dev’essere fatto, più in generale, senza alcuna discriminazione di sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale.
Rimuovere la Convenzione d’Istanbul significa dunque collocarsi in un limbo dei diritti. Tutto è consequenziale: se si vanno a toccare i diritti delle donne, si vanno a toccare anche quelli delle persone Lgbti. Per questo ho fortemente voluto che nella legge all’esame della Camera contro l’omotransfobia, inquadrata come crimine d’odio, ci fosse anche la misoginia, perché la matrice culturale è la stessa, cioè quella patriarcale».
Boldrini ha quindi aggiunto: «Voglio fare un appello, attraverso Linkiesta, a tutte le donne polacche perché siano in grado, ancora una volta, di far sentire la loro voce e condizionare le scelte del governo. L’hanno già fatto in riferimento al blocco della legge Stop aborcji, possono farlo ancora. E, se c’è bisogno, siamo pronte di andare lì a sostenerle. Per questo motivo ho firmato convintamente la lettera ai vertici delle istituzioni europee perché fermino l’uscita della Polonia dalla Convenzione d’Istanbul. Allo stesso modo la comunità Lgbti non deve sentirsi sola. Siamo tutte e tutti polacchi: quello che succede in Polonia ci riguarda e non possiamo voltarci dall’altra parte».
Sottoscritta da oltre 80 associazioni – tra cui il coordinamento nazionale di Snoq, Associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, Casa internazionale delle donne – e da più di 250 giornaliste, magistrate/i, docenti universitari, attiviste del movimento delle donne, parlamentari come Laura Boldrini, Monica Cirinnà, Anna Rossomando, Valeria Valente, la menzionata lettera cita esplicitamente le due espressioni, contenute nella Convenzione d’Istanbul, di genere e identità di genere (quest’ultima fondamentale in riferimento alle persone transgender e, non a caso, presente anche nel ddl Zan), per richiamare la pericolosità di un’affermazione di concetti di ostilità alle stesse «che rischiano di riportare l’Europa indietro rispetto ai diritti umani fondamentali legati alla sessualità e alla riproduzione e che nascondono il vero obiettivo: mantenere il controllo sulle donne e sulla loro autodeterminazione»