Con le persone Lgbti, identificate e ridotte da Andrzej Duda a una ideologia «più distruttiva per l’essere umano» del comunismo alcune settimane prima della sua rielezione a presidente di Polonia, il bersaglio nel Paese di Wojtyła restano le donne. Il 25 luglio, giorno in cui si contavano 584 nuovi casi di contagio da Covid-19 (il cui aumento è da correlarsi, secondo alcuni esperti, proprio alle elezioni presidenziali, svoltesi il 28 giugno e 12 luglio scorsi), il ministro della Giustizia Zbigniew Tadeusz Ziobro ha annunciato in conferenza stampa la dissociazione dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, più nota come Convenzione d’Istanbul.
Dal 27 luglio ha dunque inizio il processo di disdetta dall’accordo sovranazionale, che la Polonia, dopo la firma in data 18 dicembre 2012, ratificò il 27 aprile 2015 e che proprio Ziobro, nominato guardasigilli il 16 novembre successivo, definì all’epoca «una creazione femminista che mira a giustificare l’ideologia gay». Argomento, questo, che è stato nuovamente sfoderato in conferenza stampa dall’uomo di punta del partito di maggioranza Prawo i Sprawiedliwość (PiS), guidato dall‘ex primo ministro Jarosław Aleksander Kaczyński, che ha parlato di «concetti ideologici» contenuti nella Convenzione d’Istanbul e non condivisi dall’attuale esecutivo polacco. Primo fra tutti quello sul «sesso socio-culturale» in opposizione al «sesso biologico». Nel mirino è dunque il concetto di genere, che alla lettera C dell’articolo 3 dell’accordo (primo strumento sovranazionale per stabilire standard giuridicamente vincolanti per prevenire e contrastare la violenza contro le donne) è definito in termini di riferimento «a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».
Dopo aver ribadito che la legge polacca in vigore già tutelerebbe «in modo esemplare» i diritti delle donne, Ziobro, secondo uno schema argomentativo che, caro alla galassia dei movimenti pro life e pro family, equivoca sul termine genere, ha detto che la Convenzione obbligherebbe gli Stati a introdurre la cosiddetta “teoria del gender” nelle scuole.
La decisione dell’esecutivo Kaczyński era già nell’aria da una settimana. Quando, cioè, la ministra della Famiglia, del lavoro e delle politiche sociali, Marlena Magdalena Maląg, aveva fatto un annuncio per nulla velato («Ci prepariamo a denunciare la Convenzione») all’emittente televisiva Trawam di proprietà della Fundacja Lux Veritatis (di cui uno dei due fondatori è il redentorista Tadeusz Rydzyk, noto al grande pubblico, nelle vesti di iniziatore e direttore di Radio Maryja, per le sue uscite xenofobe e antisemite).
Poi il 22 luglio il proclama di Ordo Iuris, che annunciava la campagna Tak dla rodziny, nie dla gender (Sì alla famiglia, no al gender) per «porre immediatamente fine alla Convenzione d’Istanbul basata sul genere e di iniziare i lavori su una bozza della Convenzione internazionale sui diritti della famiglia e di presentarla a un forum internazionale. La Convenzione d’Istanbul mina le basi dell’ordine giuridico polacco mettendo in discussione l’autonomia e l’identità della famiglia e limitando il diritto di crescere i figli da parte dei genitori», perché «ufficialmente il documento parla di prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, ma in realtà promuove l’ideologia gender».
Tutto insomma come da copione. Il che ha portato, il 24 luglio (un giorno prima della conferenza stampa di Ziobro), migliaia di donne a manifestare in oltre 20 città polacche e nella capitale Varsavia, dove il corteo è partito davanti alla sede di Ordo Iuris in via Zielna con la partecipazione, fra le altre, dell’intellettuale Klementyna Suchanow, co-organizzatrice e anima di Ogólnopolski Strajk Kobiet (National Women Strike), il movimento che nel 2016 diede vita alle “proteste in nero” (Czarny Protest) contro le restrizioni all’aborto legale.
La scelta di far partire la manifestazione davanti alla sede di Ordo Iuris è da leggersi non solo in riferimento alla campagna contro la Convenzione d’Istanbul. È infatti questo istituto di cultura legale, che ha osservatori presso il Consiglio d’Europa, Osce, Onu e Ue, ad aver elaborato e promosso in Polonia il disegno di legge “Stop aborcji” a tutela della vita dal concepimento alla morte naturale. Non a caso, proprio nel 2016 Ordo Iuris ha ospitato a Varsavia il summit del gruppo internazionale ultraconservatore Agenda Europe, che, in nome del ristabilimento dell’ordine naturale, mira a rovesciare le leggi esistenti sui diritti umani fondamentali legati alla sessualità e alla riproduzione come il diritto al divorzio; per la donna l’accesso alla contraccezione, alle tecnologie di riproduzione assistita o all’aborto; l’uguaglianza per le persone Lgbti.
Tra i finanziatori anche il multimilionario russo Konstantin Malofeev, noto come l’Oligarca di Dio, di cui Report ha svelato i legami con Gianluca Savoini, Roberto Fiore (Forza Nuova) e Toni Brandi (ProVita). Senza contare il ruolo diretto in Agenda Europe di Alexey Komov, “emanazione” di Malofeev, rappresentante del Congresso Mondiale delle Famiglie (Wcf), componente del consiglio di amministrazione dello stesso Wcf e di CitizenGo.
Nel summit di Varsavia, cui partecipò Aleksander Stępkowski, allora viceministro per gli Affari esteri e presidente di Ordo Iuris, furono anche presentate diverse iniziative popolari in difesa della “famiglia tradizionale”. Si misero inoltre a punto strategie su come influenzare gli sviluppi legislativi in corso, quali per esempio impedire la ratifica della Convenzione d’Istanbul sulla violenza contro le donne, contrastare le minacce derivanti dalle leggi contro la discriminazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persecuzione dei cristiani.
Tali aspetti sono ben presenti a Laura Onofri, componente di “Se non ora quando – Torino”, che dice: «Preoccupa la decisione del governo polacco di voler intraprendere il processo di disdetta dalla Convenzione d’Istanbul sia per le ripercussioni sul piano concreto per le donne polacche, sia per la sua motivazione in quanto la stessa contiene “concetti ideologici” non condivisi dall’attuale esecutivo polacco, fra cui quello sul sesso “socio-culturale” in opposizione al sesso “biologico“. Questa motivazione, assai pericolosa e insidiosa però non stupisce, in quanto già da tempo siamo consapevoli che la Polonia e gli altri Paesi sovranisti stanno portando avanti una politica ben riassunta dal documento “Ristabilire l’Ordine naturale. Un’agenda per l’Europa” e dalla citazione ripresa dal Manifesto del progetto: “C’è una legge naturale, che la ragione umana può discernere e comprendere, ma che volontà umana non può alterare” e, ancora, “il compito e lo scopo di tutta la legislazione positiva è di recepire e applicare la Legge Naturale”». Per questo, dice, «a mio parere è molto pericoloso, anche per tutta l’Unione europea, che si affermino concetti di ostilità al genere e all’identità di genere che rischiano di riportare l’Europa indietro rispetto ai diritti umani fondamentali legati alla sessualità e alla riproduzione e che nascondono il vero obiettivo che è quello di mantenere il controllo sulle donne e sulla loro autodeterminazione».
Parole queste che fanno chiaro riferimento all’attuale dibattito italiano su genere e identità di genere, che, sollevato da alcune femministe della differenza in riferimento al ddl Zan contro l’omotransfobia e la misoginia, rischia, secondo l’intellettuale lesbica Paola Guazzo (co-promotrice e co-firmataria di due appelli su L’Avvenire e Il Manifesto a favore dell’originario testo base di legge), «di essere un pericoloso boomerang proprio per le donne. L’esempio della Polonia ci insegna che l’insistere sul solo concetto di sesso biologico e contrapporlo a quello di genere e identità di genere è il mezzo migliore per abbattere i diritti delle donne e favorire il sistema patriarcale e maschilista, contro il cui scardinamento le femministe lottano da sempre».
E, mentre nella giornata di ieri si sono susseguite le dichiarazioni di ferma condanna nei riguardi del governo polacco da parte di europarlamentari, tra cui quella del renziano Nicola Danti, e della segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, non manca chi, in riferimento anche alla situazione ungherese e, in parte, a quella slovacca, punta l’attenzione sulla correlazione tra virate «verso una leadership autoritaria e illiberale» e attacchi ai «diritti delle donne e delle persone Lgbti».
Ne è convinta Luisa Rizzitelli, portavoce di Rebel Network. Rete femminista per le donne, che dice: «Con l’appoggio della Polonia più vecchia e ultracattolica, le politiche del nuovo presidente, già contrario all’aborto, restio a raggiungere gli obiettivi sul clima per il 2050 e ostile nei confronti della magistratura, puntano ora a minare una Convenzione, quella di Istanbul, pietra miliare del contrasto alla violenza maschile sulle donne in Europa. Un atto gravissimo, ma non meno inquietante delle riforme che già avevano imbavagliato i media e impedito autorevoli critiche alle riforme del governo. Ritengo tuttavia che l’asticella sia ormai in vertiginoso rialzo: se l’attacco alla Convenzione d’Istanbul dovesse andare in porto, l’Europa dovrà valutare un esame politico e di valori, per decidere se la Polonia abbia ancora rispondenza con la carta fondativa europea. Occorre insomma una posizione politica dell’Unione: messaggio questo ben più severo delle procedure di infrazione e che potrebbe chiarire, non solo al governo polacco, quanto sia intollerabile che dell’Europa facciano parte Paesi che vogliono riportare i diritti delle donne indietro di 70 anni e che violino impunemente diritti umani e civili. Chiudo dicendo che è stata davvero deludente nelle sue posizioni integraliste la Chiesa cattolica polacca, responsabile di un appoggio incondizionato al presidente e di una rielezione che costerà molto in termini di libertà e diritti al futuro del Paese».