Lo so che per gli ambientalisti Maurizio Fugatti, presidente leghista della provincia di Trento, è l’incarnazione del male assoluto, il persecutore degli orsi, l’aguzzino-castratore di quel M49 ormai ribattezzato Papillon perché «si batte per la libertà», come ha detto una scrittrice che vive al sicuro con le sue galline, lontana dai boschi del Lagorai.
So bene che secondo il Wwf Papillon non è pericoloso per l’uomo, che ha fatto solo «danni al patrimonio zootecnico, in ogni caso molto inferiori al valore inestimabile che ha un orso per la biodiversità», e so che oltre all’ergastolo nel recinto del Casteller rischia l’esilio, ora che i due amichetti di Fugatti, Zaia e Fedriga, gli negano l’accoglienza (parola del resto assente dal loro vocabolario), e invocano, come per i migranti, una redistribuzione europea: perché non se lo prende la Merkel che apre le porte a tutti?
Lo so: in pratica, nella lista dei cattivi del momento Fugatti si piazza a un’incollatura da Lukashenko e dai fratelli Bianchi di Colleferro. Non era lui, del resto, che nel 2011, quando a Trento comandava il piddino Lorenzo Dellai, aveva organizzato per la festa della Lega un’abbuffata di orso stufato e alla griglia, subito bloccata dai Nas e dalla Forestale? Per la cronaca: la carne veniva dalla Slovenia, e il cuoco era vegetariano.
Poi però mi capita di leggere in ritardo un fantastico libro del 2003 di David Quammen (il genio di “Spillover”) che Adelphi ripropone ora nei tascabili: “Alla ricerca del predatore alfa”. Il mangiatore di uomini nelle giungle della storia e della mente (traduzione di Marina Antonielli), un itinerario stupefacente lungo la “catena alimentare della potenza e della gloria”, alla scoperta del nostro rapporto con le belve carnivore, fino a quelle zone oscure che la memoria della specie tende a rimuovere, dove l’Homo Sapiens non era (o non è) cacciatore ma selvaggina, preda succulenta per le fauci dei man-eaters (espressione aborrita dagli animalisti, ma sdoganata da Quammen).
Si parla di tigri, di squali, di coccodrilli, di leoni. E ovviamente di orsi.
Ma il principe dei predatori alfa spunta solo a pagina 261: un’autentica belva umana, uno sterminatore di fauna selvatica che in confronto Fugatti è Michela Brambilla o Fulco Pratesi. Il suo nome è Nicolae Ceaușescu, per chi non lo sapesse «il mediocre dittatore che per venticinque anni dominò con durezza e megalomania crescenti la Romania, fino a considerarla un suo regno personale».
Quammen lo descrive così: «Un piccolo uomo noioso con un precipuo talento per le macchinazioni», ma anche «un abile manipolatore di uomini e di situazioni».
Nei primi anni al potere sembra quasi un progressista, prende le distanze dall’Urss, nel 1968 critica l’intervento sovietico a Praga. Viene a lungo corteggiato dai leader occidentali, da Nixon a Bush senior.
Ma presto rivela il suo vero volto: vara un programma accelerato di industrializzazione, fabbriche di camion e trattori, petrolchimica, inquina l’aria e i fiumi, distrugge i villaggi per forzare la gente a inurbarsi, proibisce aborto e contraccezione, sperpera il denaro pubblico in opere grandiose e inutili.
E come tutti i sovrani assoluti, è appassionato di caccia. Una caccia speciale, agevolata, perché lui è il Conducator, e manipoli di burocrati ossequienti e di agenti della Securitate fanno a gara per mettergli le vittime sotto il naso, ai piedi dell’altana su cui lui si apposta con costosi fucili di importazione.
«Orsi e cinghiali venivano spinti verso l’altana con battute organizzate cui partecipavano decine di uomini. Ceaușescu sparava, ammirava le prede da lui uccise, posava per i fotografi e ripartiva». Più che un cacciatore, i testimoni lo descrivono come un macellaio, che continua a fare fuoco sugli animali finché non crollano a terra o fuggono.
Se ferisce un cervo, ordina agli assistenti di trovarlo e di portargli il trofeo, e quelli, pur di accontentarlo, a volte ne ammazzano un altro a caso. In venticinque anni di regime, il dittatore rumeno pare abbia ucciso circa quattrocento orsi. Il suo record: ventiquattro in un solo giorno, nell’autunno del 1983. Sempre con l’aiuto delle fedeli squadracce.
Il servilismo nei confronti di Ceaușescu arriva al punto che i funzionari di una cittadina dei Carpazi decidono di rapire dei cuccioli di orso da altre zone del paese e di portarli nelle loro foreste, per attirare il Conducator.
Per riconoscerli, gli amputano un dito di una delle zampe. L’impresa fallirà, ma per molti anni in Romania vagheranno orsi con nove dita. Quammen ci racconta di un museo della caccia nei Carpazi che raccoglie centinaia di trofei impagliati, corna di cervo, teste di cinghiale, pelli di lince e di orso.
La maggior parte degli animali esposti sono caduti sotto il piombo di Nicolae Ceaușescu e poi abbelliti e ingigantiti dagli zelanti tassidermisti di corte. La nemesi storica ha voluto che il cappotto indossato dal dittatore al momento della sua fucilazione, il pomeriggio di Natale del 1989, fosse foderato appunto di pelle d’orso.
Che l’uomo sia l’animale più pericoloso per l’ambiente è una banalità da social e un atto di contrizione collettiva stile Fridays for Future, che criminalizzando tutti assolve tutti allo stesso modo.
Tutti colpevoli, nessun colpevole. Di che uomo stiamo parlando? C’è una graduatoria delle responsabilità, e forse una ricerca storica più accurata ci permetterebbe di dare un volto all’Ignoto 1 che tanto ignoto non è.
I tiranni, i regimi autoritari e i sistemi a partito unico sono all’origine di molte delle più gravi aggressioni all’ambiente. Pensiamo a Chernobyl, al prosciugamento del lago di Aral, al disastro del Mar Caspio. Anche il capitalismo inquina e devasta gli ecosistemi, ma dove c’è democrazia e libertà di informazione i suoi crimini vengono denunciati, i cittadini hanno i mezzi per ribellarsi e la magistratura il potere di perseguirli.
Nella Romania postcomunista, ci racconta Quammen, la caccia all’orso è diventata un business internazionale: gli stranieri vengono qui armati di fucile, pagano qualche migliaio di dollari (in contanti, all’epoca in cui il libro fu scritto) a un funzionario del ministero delle foreste e si levano lo sfizio di uccidere un esemplare di Ursus arctos.
Gira e rigira, anche Papillon potrebbe essere deportato in Romania e cadere nelle grinfie dei nipotini di Ceaușescu, e magari domani (Dio non voglia) nel barbecue di Maurizio Fugatti. Ma nemmeno noi umani possiamo stare troppo tranquilli.
In un mondo sempre più dominato dai predatori alfa alla Putin, Orban o Trump, rischiamo un giorno o l’altro di finire tutti quanti in un immenso recinto modello Casteller, a guardare Fox News e a votare su Rousseau (tanto il parlamento non serve).
Primi fra tutti animalisti, ambientalisti, amici degli orsi e di Greta, che nelle democrature efficienti care a Grillo vengono messi a tacere con le buone o con un sorso di tè al Novichok. E non hanno muscoli e artigli per scavalcare e le barriere elettrificate.