Il protagonista del fulminante romanzo di Lawrence Osborne, “L’estate dei fantasmi” (Adelphi) è un migrante di nome Faoud, un naufrago in fuga dall’apocalisse siriana che il Meltemi ha spiaggiato su un’isola greca. Ma è anche, come dicono a Cambridge dove Lawrence ha studiato, un eminentissimo figlio di mignotta. Non vi racconto cosa combina, per non guastarvi la sorpresa. Mi limito ad anticiparvi che nemmeno la soccorritrice del naufrago, Naomi, una ventenne dell’élite britannica, è quello che sembra o vorrebbe sembrare: il suo zelo filantropico è solo una maschera del cinismo. Anzi è lei a condurre la danza e intrappolare lui.
Senza nessuna concessione agli stereotipi xenofobi e sovranisti (chiariamolo subito), Osborne abborda la tragedia dell’immigrazione da una fiancata rimasta in ombra, ci spiazza con un racconto che capovolge la narrazione dominante. Nella quasi totalità dei romanzi e dei film dedicati all’argomento, da Giuseppe Catozzella a Fabio Geda, da “Terraferma” a “Fuocoammare”, il profugo veste i panni della vittima o dell’eroe. Neppure Checco Zalone, nel suo bellissimo “Tolo Tolo”, se l’è sentita di mettere in scena un migrante “cattivo”.
Nella realtà non è così, come ben sanno i magnifici ragazzi delle Ong, che spesso tra i passeggeri dei gommoni imbarcano individui problematici o violenti. Un volontario di Mediterranea mi ha raccontato che per suo padre, vecchio pescatore pugliese, il salvataggio in mare era un imperativo categorico senza eccezioni. «Quando vedo qualcuno in difficoltà», diceva sempre, «lo tiro a bordo. Se poi quello fa lo stronzo, lo corco di botte. Ma prima lo salvo». Non si lascia affogare nessuno, fosse anche il peggiore dei criminali.
Per il diritto internazionale del mare, e per la legge morale che è dentro di noi, il naufrago è sacro, e va traghettato in terraferma nel porto sicuro più vicino. In acqua la scelta è binaria: zero-uno, morte o vita. Non ci sono vie di mezzo, e di morti affogati in questi anni ne abbiamo visti abbastanza, di fronte alle nostre coste, e continuiamo a vederne.
A terra, però, si apre il ventaglio delle alternative, e ognuno va per la sua strada. Ci sono gli Aboubakar e ci sono i Faoud, ci sono gli stranieri per bene e i figli di mignotta. Così come ci sono gli imprenditori che assumono con regolare contratto e i caporali (o gli startupper “green” con due cognomi) che pagano 4,5 euro all’ora per raccogliere le fragole. Terminata la fase eroica dei rescue, giustamente indiscriminati, inizia il percorso dell’accoglienza e dell’integrazione, dove la discriminazione è inevitabile e doverosa. E dove lo sfruttamento, la tratta, il traffico illegale, lo spaccio sono sempre in agguato.
In Italia il dibattito sull’immigrazione è strangolato da una tenaglia ideologico-emotiva che non lascia spazio al ragionamento. Sono risorse! No, stupratori! Profughi! Macché, turisti per sempre. Fuggono dalle guerre! Seee, figurati, col satellitare in tasca. L’accoglienza è un dovere! E perché non ve ne prendete qualcuno a casa vostra?
Lo abbiamo visto anche in questa estate di emergenza Covid: chiudete gli hotspot in Sicilia, gli immigrati ci contagiano! E allora, il Billionaire? Il problema non sono i ragazzi che ballano, ma quelli che sbarcano. Comincia tu a metterti la mascherina! E avanti così, da un tweet all’altro, di luogo comune in luogo comune, in una rincorsa dissennata. La santificazione del migrante è speculare alla sua criminalizzazione. E in qualche modo la alimenta.
È vero che la destra non ha una politica migratoria che non sia la chiusura dei porti e la caccia al clandestino, ma la sinistra? Non fa che ondeggiare tra proclami solidaristici e ripiegamenti securitari, tra lacrimucce per Sea Watch e accordi inconfessabili con la Libia. Intanto i decreti sicurezza sono ancora lì, e ancora lì è la famigerata Bossi-Fini che di fatto impedisce agli extracomunitari di venire a lavorare legalmente nel nostro paese. In pratica tutto l’impianto normativo che regolamenta l’immigrazione in Italia rimane quello costruito dalla destra negli ultimi vent’anni, non per risolvere i problemi ma per raccattare voti.
E allora cosa succede? I migranti più qualificati, con un titolo di studio e un mestiere, se ne vanno altrove, in Germania, nel Nord Europa. Quelli che restano qui vivacchiano di espedienti, e dopo la chiusura degli Sprar e il crollo delle protezioni umanitarie gironzolano per le strade, senza studiare né lavorare. O peggio finiscono risucchiati dalla criminalità, attizzando i pregiudizi. Il senegalese di Corso Genova, con la sua sporta di libri africani che nessuno compra, ha ormai i capelli bianchi. Magari saprebbe fare di meglio ma non riusciamo a integrarlo per le stesse ragioni per cui i giovani italiani non trovano lavoro. Perché abbiamo una burocrazia inefficiente, un sistema pubblico di collocamento fallimentare e un’economia impantanata. Perché l’Italia è il grande malato d’Europa.
La destra fa il suo mestiere, cavalcando la paura, ma la sinistra (e quel che sopravvive del centro liberaldemocratico) dovrebbe abbandonare il pietismo indifferenziato e l’idealismo a giorni alterni per un solido pragmatismo umanitario. Il documento di Minima Moralia (pubblicato da Linkiesta) dice che per compensare il calo demografico «dobbiamo assicurarci forza lavoro dall’estero in maniera legale, pro-attivamente gestita, disciplinata e coerente con i bisogni del Paese».
Nessuna invasione, nessuna sostituzione etnica. 200 mila immigrati all’anno, da impiegare per esempio in agricoltura, programmazione software, assistenza infermieristica e geriatrica: per selezionarli, formarli e indirizzarli ci vuole lo stato tedesco, non certo i navigator del Mississippi. Ma cosa ci si può aspettare da un Pd in “rotta di collusione” con quelli che fino a ieri farneticavano di «taxisti del mare»?