Lo so, lo so: ogni articolo che avete letto sulla body positivity era di struggente imbecillità. E quindi, se vi venisse il sospetto che questo articolo ragionasse sulla body positivity, chiudereste rapidamente il browser borbottando che piuttosto impiegate i prossimi tre minuti a leggere una pagina di Guerra e pace. Per fortuna io non ho intenzione di parlare di body positivity, anzi: se mi sentite usare le parole “body positivity” siete autorizzati a prendermi a coppini.
Non voglio neanche parlare della modella di Gucci, quella della cui estetica una pletora di appena rientrati da Marte che si sono persi gli ultimi decenni di storia della moda sta dibattendo da giorni.
E non voglio parlare di quella conduttrice televisiva che pesa trenta chili da bagnata e che, per farci vedere quant’è una di noi, si pizzica la cellulite in diretta, e tutti siamo pronti a sdilinquirci: quant’è coraggiosa, puntesclamativo.
E non voglio parlare neanche della sorella di Chiara Ferragni, Valentina, che si erge a eroina della – di quella cosa che ho promesso di non nominare – pubblicando foto in bikini che evidenziano che ha ben mezzo chilo di troppo e rilasciando interviste sul dovere di non migliorarsi. Abitiamo un’epoca in cui le gravemente obese vengono chiamate curvy e proposte come modelli di beltà sulle copertine dei giornali patinati, ma se hai mezzo chilo di troppo e ti metti in bikini sei Giovanna d’Arco.
Quella cosa che ho promesso di non nominare è, come molte delle puttanate della contemporaneità, figlia delle riviste femminili, delle pubblicità degli shampi, e di Bridget Jones. Ci concentreremo qui su shampi e romanzi inglesi, giacché le riviste femminili costituiscono gran parte del mio reddito degli ultimi due decenni e non vorrei sembrare ingrata.
In Bridget Jones – gran romanzo comico il cui livello di lettura satirico è passato sopra le teste della più parte delle lettrici, che l’ha preso per un polpettone sentimentale, lo stesso errore che poi avrebbe fatto con Sex and the city – il principe azzurro diceva alla protagonista «mi piaci così come sei». Erano gli anni Novanta, il decennio che ha inventato il sestessismo, e le lettrici si slogavano il collo ad annuire: ecco, finalmente potevano smettere di sforzarsi (ammesso l’avessero mai fatto) d’essere migliori, finalmente era letteratura, era modello comportamentale, era dogma; comunque fossimo, andavamo bene com’eravamo.
Le basi per il danno le aveva poste nel 1973 l’industria cosmetica con «Perché io valgo», lo slogan più letale per le menti fragili che sia mai stato concepito. Dopo una quindicina d’anni in cui il concetto era stato inculcato dalle riviste femminili – io valgo, se non mi danno un aumento è perché sono stronzi, io valgo, se non mi ama è perché è un imbecille, io valgo, mai avere un dubbio in merito e pensare aspetta che provo a sbattermi per valere qualcosa, perché mai, io valgo già, me l’ha detto lo shampoo – a fine anni Ottanta arrivò la mutazione.
«Perché io valgo» cambiò in «Perché tu vali», ponendo le basi per tutte le dinamiche da gruppi di mamme su Facebook (dove «siamo donne, possiamo tutto» è la frase più ricorrente, e nessuna mai ricorda che è una donna anche la Azzolina) o da gruppi di amiche nella vita, dove qualunque conversazione, da «Sei bellissima» a «Non ti merita», è una variazione su «Perché tu vali».
Le letture della vicenda Gucci (riassunto minimo: hanno preso una modella nasona, come si fa da decenni senza che i commentatori dei social se ne accorgano) sono tutte rielaborazioni di «perché tu vali». Tutte «ognuna è bella a modo suo» (se non esiste il brutto, che valore ha il bello? Se il bello non ha valore, come mai ci teniamo tanto tutte a sentirci dire che rientriamo negli ormai sfondati canoni di bellezza, anche quando di lavoro non facciamo le modelle?); tutte «gli uomini devono smetterla di giudicare le donne in base alla loro voglia di scoparsele» (l’abolizione del desiderio: vaste programme); tutte «finalmente la moda si evolve», forse la lettura più commovente per ignoranza, gente che ha dormito per tutto il Novecento e s’è quindi persa qualunque sovversione autorevole dei canoni estetici tradizionali: Mina che si toglie le sopracciglia nel ’66, Alberto Arbasino che nel ’76 in Fratelli d’Italia fa dire d’un personaggio «È una tedesca senza sopracciglia, direi mannequin», Kristen McMenamy testimonial di Chanel nell’85, Rossy de Palma che sfila per Gaultier nel ’94.
La moda è quella cosa le cui passerelle fanno dire alle ragazze carine «ma mica mi posso conciare così»; le ragazze carine poi compreranno nelle boutique camicette bianche dello stesso stilista che ha fatto sfilare facce strane e vestiti assurdi: non si fa notizia con le camicette bianche (a meno che tu non sia Ferré addosso a Sharon Stone, cioè il meglio tagliato dei capi classici addosso alla più fenomenale delle bellezze classiche, cioè delle bellezze tout court).
La modella di Gucci (che si chiama Armine Harutyunyan, e aspettiamo il primo «sessisti» rivolto a chi osi titolare omettendone l’impronunciabile cognome) non è caruccia e non è una novità. Fossi approssimativa come quelli della body positivity (scusate, mi è scappato), direi che l’unica novità sarebbe non certo una modella nasona, bensì una che non rientri nella taglia di campionario, cioè non sia magrissima e complichi il lavoro d’organizzazione delle campagne pubblicitarie e delle sfilate; mentirei: è già stato fatto anche quello.
È già stato fatto tutto, specialmente tutto ciò che non è tradizionalmente seduttivo. Perché, così come è normale che un maschio medio giudichi una modella secondo criteri di sdraiabilità, specularmente la moda, fatta per essere venduta alle donne, non ha come principale criterio la seduttività. Altrimenti tutte vestiremmo Dolce e Gabbana, e nessuna Marni. (Legenda per lettori che non sono attrezzati a distinguere: Dolce e Gabbana sono quelli che ti stringono la vita, ti sollevano le tette, e che metti quando vai a cena con uno che ti piace; Marni è quello che ti fa sembrare una suora laica, e che metti quando puoi vestirti come ti pare).
La conduttrice che pesa trenta chili da bagnata e che qualche settimana fa s’è strizzata la cellulite (immaginaria, ovviamente) in diretta televisiva ha un precedente. Qualche mese fa aveva raccontato di portare lo Spanx, una guaina contenitiva che ti appiattisce il rotolino (se ne hai almeno mezzo; altrimenti serve a placarti le paturnie). Apriti coraggio. Dai commenti sembrava si fosse calata nel pozzo di Vermicino. All’epoca lessi un articolo sulla sua (scusate) body positivity che mi fece capire che, come tutti i deliri postmoderni espressi con parole inglesi, è un culto che viene praticato senza averlo compreso. Dovrebbe essere l’accettazione di sé proprio-come-si-è: cosa c’entra con una che, pesando trenta chili da bagnata, sente la necessità d’indossare una guaina contenitiva?
Sono certa che anche lei, ove interpellata, con tutto il fiato che le lascia la guaina direbbe, come Valentina Ferragni, che dobbiamo smetterla di cercare di essere più belle, più brave, più intelligenti. Percaritadiddio non impegniamoci. Ripetiamo invece con le ragazze d’oggi, pregne di spirito del tempo, che ora «bisogna essere sé stessi». Perché noi valiamo.