Era già presente nel Programma Banche del 2017, il piano del Movimento 5 Stelle per il sistema bancario e finanziario italiano, votato anche sulla piattaforma Rousseau. L’abbiamo poi ritrovata un anno dopo nel contratto di governo a tinte giallo-verdi. E la stessa proposta è tornata a risuonare proprio nelle ultime settimane: una banca pubblica per gli investimenti, una sorta di braccio armato del governo per rilanciare la crescita del paese con investimenti in settori considerati strategici.
L’idea è presente nei 500 progetti per il Recovery Fund presentati dai singoli ministeri, sotto il contrassegno del Mise: la proposta – da due miliardi in tre anni – prevede la creazione di un istituto di credito secondo il format “Banca Nazionale di Promozione”, sulla scorta di enti come Bpi France in Francia o Kfw in Germania. La descrizione del progetto resta vaga – nasce per «contrastare e colmare i vuoti creati dai fallimenti dei mercati finanziari che riducono la realizzazione degli investimenti» e per «incrementare il potenziale di crescita dell’economia nazionale» – ma qualche ipotesi sulla sua genesi sta già circolando.
Ipotesi che gravitano tutte intorno al Mediocredito Centrale, l’istituto bancario partecipato al 100% da Invitalia. Negli ultimi anni il Mediocredito è entrato in una fase di impegno attivo: spicca in particolare l’intervento nella vicenda della Popolare di Bari (da poco trasformata in S.p.a.) con l’acquisizione del 97% del suo capitale; un’operazione che sembra andare nella direzione di maggiori progetti a lungo termine. Di qui si compirebbe il gran passo verso la “banca pubblica per gli investimenti”, a cui si lega anche il destino della stessa Popolare di Bari (il presidente sarà Gianni De Gennaro) come possibile polo di aggregazione di altri istituti di credito del Mezzogiorno. È solo un’ipotesi per il momento: una fonte tecnica del Mise, interpellata da Linkiesta, riferisce che a breve saranno sciolte tutte le «riserve politiche e tecniche».
Del resto un’architettura simile era già stata abbozzata quest’estate in un emendamento al decreto Semplificazioni. E sulla Popolare di Bari la stessa Carla Ruocco, presidente della Commissione di inchiesta sul settore bancario, ha osservato in una recente intervista a La Stampa che «o c’è un disegno per lo sviluppo del Mezzogiorno, oppure non abbiamo alcun bisogno di una banca locale con un conto economico minato dalle scelleratezze della precedente gestione». In Italia un organo di “promozione nazionale” esiste già: è la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che senza essere un istituto bancario agisce essenzialmente come una banca di Stato, avendo tra le sue attività principali anche la partecipazione nel capitale di rischio di imprese nazionali ritenute strategiche per lo sviluppo del paese.
Non è chiara la sorte che toccherebbe a Cdp se il progetto di una banca per gli investimenti si realizzasse, ma la domanda sorge spontanea: c’è davvero bisogno di una nuova banca pubblica? No senz’altro secondo Angelo Baglioni, professore ordinario all’Università Cattolica di Milano ed esperto di sistema bancario. «Ci sono altri soggetti che svolgono già questo ruolo: la Cdp in primo luogo, ma anche la Banca europea per gli investimenti, che ha investito diversi miliardi in Italia e nel Mezzogiorno, ed è anche molto sensibile alle tematiche ambientali. Senza dimenticare le stesse banche commerciali. Con l’attuale corso della politica monetaria le banche sono inondate di liquidità. Cercano solo progetti validi in cui investirla».
Non è troppo dissimile il pensiero di Andrea Roventini, ordinario alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e in passato vicino al Movimento 5 stelle: «Banca pubblica per gli investimenti è solo una bandiera. Prima bisogna fissare missioni di sviluppo per rilanciare la produttività, e in parte queste sono già indicate dalla Commissione europea nelle linee guida per il Recovery Fund: digitalizzazione, mobilità sostenibile, transizione verde. Dopo aver dato contenuto a queste missioni, si verifica se le imprese, al Sud come al Nord, hanno accesso al credito nel sistema finanziario privato per intraprendere queste trasformazioni; soltanto in seguito si valuta se esiste la necessità di un intervento pubblico vincolato a target verificabili. Creare una banca pubblica per puntiglio senza obiettivi precisi sarebbe un passo falso».
Solo pochi giorni fa anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, nel corso di un’audizione all’Associazione bancaria italiana, ha manifestato la sua opposizione alle crescenti tentazioni di un polo bancario pubblico a sostegno del Mezzogiorno. Un’esperienza, quella delle gestioni bancarie pubbliche, non di rado caratterizzata, secondo il numero uno di via Nazionale, da «gravi inefficienze nell’allocazione delle risorse»: «quello che Visco intendeva tra le righe è ingerenze politiche nella gestione del credito» commenta Baglioni, «purtroppo una banca a gestione pubblica si espone a questi rischi, si pensi alle esperienze disastrose dei banchi meridionali, tutti salvati a un passo dal fallimento grazie alla fusione con banche del Nord».
Se l’altolà a un polo bancario pubblico è stato perentorio, il governatore ha però rivelato un atteggiamento meno ostile verso la costituzione di una banca pubblica di sviluppo, anche se le modalità di tale istituzione – ha precisato – andrebbero valutate con attenzione. C’è chi pensa che con queste parole Visco abbia di fatto aperto a una riedizione degli istituti di credito speciale, che avevano giocato un ruolo chiave durante la ricostruzione post-bellica e gli anni del boom economico. Sorti inizialmente come enti pubblici e trasformati poi in istituti privati a struttura societaria, erano specializzati nel finanziamento delle imprese, dell’edilizia, delle opere pubbliche, dell’agricoltura e di molti altri settori, fino a quando il Testo Unico Bancario del 1993 non ha messo fine alle specializzazioni funzionali.
Proprio nel solco di questa esperienza si inserisce un’altra proposta – parallela a quella del Mise – formulata da Mario Turco, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega alla programmazione economica e agli investimenti. «Un istituto di credito speciale, non una banca pubblica con sportelli soggetta a vincoli patrimoniali e alla vigilanza europea» spiega Turco a Linkiesta, «con l’obiettivo non solo di investire in comparti strategici e innovativi, ma anche di favorire la creazione di nuovi poli industriali integrati dall’elevato moltiplicatore imprenditoriale e occupazionale». Per capirci, un ente che non si limiti quindi alla partecipazione finanziaria nelle grandi imprese in crisi, ma che guidi anche la programmazione industriale e l’attività nei settori strategici e di base dell’economia.
Turco ha già delineato il possibile schema di finanziamento, dopo la formazione della dotazione finanziaria iniziale: l’istituto si sosterrebbe anche grazie all’emissione di titoli obbligazionari di scopo, garantiti dallo Stato e con un rendimento fisso o in parte agganciato alla redditività dei progetti finanziati; ma offrirebbe anche conti di risparmio remunerativi accessibili prevalentemente alle banche commerciali. «Alla dotazione finanziaria potrebbe partecipare InvestItalia in primis, con il contributo di Invitalia e potenzialmente anche di Cassa depositi e prestiti e di Mediocredito Centrale» ha spiegato il sottosegretario. Senza tralasciare i fondi del Recovery Fund. Il sottosegretario insieme a InvestItalia presenterà proprio in questi giorni il progetto all’attenzione del governo, e allora vedremo se passerà il test delle “linee guida”.
Il nodo principale da sciogliere è infatti se una banca pubblica per gli investimenti o anche un istituto di credito speciale sia o meno compatibile con le direttive fissate a Bruxelles. Perché come ha ricordato Di Maio in audizione alla Camera sul Recovery Fund, «non possiamo permetterci progetti che tornano indietro». Su questo il professor Baglioni è assai scettico: «Dubito che una proposta simile sarebbe accolta. Non serve un altro intermediario finanziario, ma un insieme di progetti concreti di sviluppo». La Commissione europea in effetti si è espressa chiaramente: «sette settori di bandiera» verdi e digitali su cui concentrare le proposte e realizzazione delle riforme raccomandate a ogni paese.
C’è dunque da chiedersi quale possa essere il valore aggiunto di un istituto pubblico. È vero che la normativa europea non ostacola l’esistenza di simili istituti, a condizione che rispettino le norme sulla concorrenza e sul libero mercato, nonché il divieto di aiuti di Stato. E certamente la crisi economica generata dalla pandemia ha messo sotto pressione il sistema bancario privato e ha rallentato l’accesso al credito da parte delle aziende in sofferenza. Ma forse più che di un nuovo carrozzone statale, «l’economia italiana beneficerebbe di una pubblica amministrazione efficiente, di infrastrutture adeguate, di investimenti in innovazione e conoscenza». Parola di Visco.