La miniera dei datiCosì i giganti del tech sono partiti alla conquista di Wall Street

La mediatizzazione cui ci hanno sottoposto le aziende digitali era in realtà una finanziarizzazione nascosta della nostra vita quotidiana. E dall’assicurazione al fintech, le informazioni su di noi sono la vera ricchezza che fa gola anche alle istituzioni tradizionali del settore

SPENCER PLATT / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP

Se negli ultimi anni Wall Street ha reso la finanza una caratteristica centrale della nostra vita quotidiana, la Silicon Valley ha fatto lo stesso con i media digitali. Eppure ci è sfuggito qualcosa.

Più la tecnologia dei social media, dei motori di ricerca e delle app di fitness si insinuava nelle nostre vite private, più ci lamentavamo di come fossero diventate ingombranti. Condivisioni su Facebook, su Twitter e su Instagram hanno distolto tutti dal punto focale: i dati.

Le grandi compagnie tecnologiche armate di dati migliori, ingegneri migliori e database migliori, si stanno preparando a fare irruzione a Wall Street. Perché la mediatizzazione della realtà a cui ci hanno sottoposto i nuovi servizi digitali è stato in verità una finanziarizzazione della vita quotidiana sotto mentite spoglie.

Le aziende della Silicon Valley siedono su una raccolta di dati enorme e apparentemente banali sulle nostre attività giornaliere. E il tipo di dati che raccolgono sarà sempre più diversificato, perché il fatto che abbiamo già concesso a degli estranei di monitorare quello che facciamo online ci porterà ad accettare la cosa nella convinzione che non importa. Il che può sembrare banale, ma non lo è, soprattutto considerando l’ascesa di internet negli oggetti quotidiani, con dispositivi indossabili, che rendono inevitabile l’interazione costante con sensori e altri dispositivi.

L’esempio più eclatante è sicuramente Neuralink, una società di neurotecnologie con l’ambizioso obiettivo di produrre interfacce neurali impiantabili, fondata nel 2016 da Elon Musk e un gruppo di imprenditori.

Due settimane fa, durante una diretta streaming in cui ha presentato i risultati ottenuti finora, il capo di Tesla ha fatto sapere che negli ultimi due mesi l’azienda ha impiantato un dispositivo di 22,5 millimetri di diametro e 8 millimetri di spessore nel cervello di alcuni maiali. Due milioni di persone hanno seguito l’evento, il cui momento clou è stato vedere un maiale agitarsi in una piccola gabbia, e sentire – in concomitanza all’annusare in giro dell’animale – un segnale sonoro che ne registrava l’attività neurale.

Durante tutta la presentazione Musk ha parlato con entusiasmo delle possibili applicazioni mediche e non solo. Il chip sarebbe in grado di curare l’insonnia, la depressione, l’ansia, alcune malattie neurologiche, ma anche mandare in neurodiffusione la musica che più ci piace, oltre che, chiaramente, registrare e analizzare ogni attività del nostro cervello. «Quello che potremmo essere in grado di fare sembra uscito da un episodio di Black Mirror», ha riconosciuto lo stesso Ceo di Tesla. Ma a ben vedere non bisogna andare così lontano per vedere la pervasività dei dati nelle nostre vite.

Più o meno in concomitanza con il lancio del primo chip di Neuralink, Amazon ha lanciato il suo dispositivo indossabile, Halo, pensato per il fitness e non solo.

Sfruttando l’intelligenza artificiale Halo tiene traccia dei parametri e dei progressi delle attività fisiche, monitora la qualità del sonno, comprende lo stato emotivo dell’utente analizzandone il tono della voce in tempo reale, collegando i risultati complessivi per misurare il benessere psicofisico generale.

Inoltre, scattandosi un selfie l’app sarà in grado di calcolare la percentuale del grasso corporeo creando un modello 3D. Per farlo non bisognerà essere troppo vestiti, altrimenti l’app non riuscirà nell’intento.

La promessa di Amazon è quella di mantenere tutte le informazioni criptate e al sicuro. Sicuramente questo tipo di app potrebbero aiutare gli utenti a seguire una vita più sana, a mettersi in forma; nel caso più eclatante potrebbero pure portare ad una diminuzione delle malattie cardiovascolari, ma a ben vedere è più un rischio che una possibilità, soprattutto in materia di privacy. Le norme esistenti a tutela del consumatore infatti potrebbero non essere sufficienti.

Le modalità esistenti per regolamentare l’economia digitale non sono di grande aiuto, come dimostra la recente inchiesta dell’Unione Europea sull’acquisizione di Fitbit da parte di Google.

I regolatori europei sono preoccupati che l’afflusso dei dati prodotti dai dispositivi Fitbit, come qualità del sonno, gradini saliti, passi fatti e altre metriche personali, possano rafforzare ulteriormente la posizione dominante di Google nel mercato dell’advertising. «È probabile che questa acquisizione sia un preoccupante punto di svolta non solo per il modo in cui i consumatori interagiscono con il mondo online, ma anche per come vengono utilizzati i loro dati sanitari», ha affermato in una nota Monique Goyens, giurista dalla Commissione Europea. «È estremamente importante che l’UE svolga questo esame approfondito perché i dispositivi indossabili come Fitbit potrebbero in futuro fornire alle aziende i dettagli di essenzialmente tutto ciò che i consumatori fanno 24 ore su 24, 7 giorni su 7».

«C’è una contraddizione interna all’attività di regolazione della governance digitale» afferma a Linkiesta Enrica Palmerini, professore associato di diritto civile alla scuola Normale di Pisa. «Da una parte la promozione di un mercato unico digitale presuppone anche la circolazione dei dati, dall’altro lato c’è una fortissima volontà di garantire la privacy europea».

Questo inevitabilmente porta ad una forte tensione tra la libera circolazione, che è vista come un volano per l’innovazione e una disciplina della privacy fortemente garantista. «Il cortocircuito c’è, è innegabile. E il modo in cui le istituzione europee tentano di superarlo è quello di ribadire le garanzie sulla tutela dei dati, così da garantire la fiducia nella regolamentazione. Tuttavia rimane un tentativo un po’ ipocrita di risolvere il problema».

Salute, ricerche e mail sono tutti servizi che generano dati che uniti potrebbero avere un enorme potere finanziario. Potere che le grandi compagnie Tech stanno cercando di convogliare nel settore finanziario.

Come dimostra l’ascesa in campo nel mercato delle assicurazioni da parte di Google. La settimana scorsa Verily, la consociata di Alphabet che si occupa di servizi sanitari, ha infatti annunciato la nascita di una nuova filiale, Coefficient Insurance, attiva nel settore assicurativo, e che sarà supportata da Swiss Re Corporate Solutions, l’unità assicurativa del gruppo Swiss Re.

La società venderà un’assicurazione stop-loss, che aiuterà a coprire richiesta di risarcimento ingenti contro i datori di lavoro che autofinanziano le loro polizze sanitarie. Solitamente i datori, quando stipulano una polizza, fissano una soglia massima che sono disposti a coprire e l’assicurazione stop loss copre il resto quando la soglia viene superata.

In sostanza Verily, aggiungendo all’equazione la sua elaborazione dei dati e la sua abilità tecnologica, spera di aiutarli a customizzare le polizze che offrono per poter prevenire e controllare meglio la spesa sanitaria per singolo dipendente. Il che potrebbe portare il datore di lavoro ad identificare e monitorare, tramite smartphone, i dipendenti con problemi di salute. In questo senso la consociata di Google, potrebbe presto iniziare a monitorare i dipendenti a rischio tramite i loro smartphone e persino a guidarli verso stili di vita più sani.

«Senza dubbio i dati permettono una personalizzazione del prodotto finanziario molto efficace. Avere questi dati a disposizione permetterebbe alle società di fare cose che prima non si potevano fare, come profilare meglio il cliente, sapere che tipo di comportamente ha, e in questo senso offrirgli delle soluzione personalizzate», ha detto a Linkiesta Emilio Barucci professore di finanza al Politecnico di Milano e direttore del primo Master italiano dedicato al settore Fintech. «Tuttavia potrebbe pure avere un effetto distruttivo sull’intero settore».

Il mondo assicurativo infatti si basa sulla condivisione del rischio. «Io che non uso molto la macchina, pago comunque un premio più elevato di quello che dovrei, perché così assicuro chi la usa di più – spiega Barucci – Nei prossimi anni ci saranno sicuramente dei grandi sconvolgimenti, e non saranno indolori. Tuttavia penso che le grandi compagnie assicurative non siano destinate a scomparire, solo a concentrarsi su prodotti più complessi, lasciando campo libero su assicurazioni semplici e meno complicate».

Era solo questione di tempo prima che Google entrasse nel settore dell’assicurazione sanitaria. Con la profonda conoscenza che ha dei nostri movimenti, contatti, ricerche, la holding che possiede il motore di ricerca più usato al mondo ha avuto per anni un’immagine del rischio migliore di qualsiasi assicuratore.

Tuttavia bisognerebbe essere estremamente ingenui per credere che un tale sistema di sorveglianza digitale, perché di questo stiamo parlando, che si estende dal posto di lavoro fino al nostro letto possa portare benefici a tutti. Certo potrebbe venirci fuori qualcosa di buono, ma dovremmo chiederci chi sosterrebbe il costo di questa utopia digitale. L’assicurazione sanitaria infatti è solo un parte del problema più ampio della governance digitale.

Se Amazon è già in grado di studiare la tua storia, prevedere i tuoi acquisti e spedirli ancora prima che tu possa effettuare l’ordine, prova a immaginare che tipo di previsioni di natura finanziaria possa fare. E lo stesso discorso vale anche per Google e Facebook.

Come dimostra anche il caso della startup Robinhood, unicorno della Silicon Valley, i dati sono diventati una parte essenziale del settore finanziario.

Le Big Tech infatti vedono in questo business un modo per avvicinarsi agli utenti e raccogliere dati preziosi. «Se possiamo aiutare più persone a fare più cose in modo digitale online, è un bene per Internet e un bene per noi», ha detto in un’intervista il dirigente di Google Caesar Sengupta.

In origine era la Datek, una società di trading ad alta frequenza che utilizzava la tecnologia per aggirare le regole dei grandi mercati finanziari, e fare profitto. Così come faceva una galassia di piccole aziende private votate alla velocità sui mercati finanziari.

Con il tempo però le cose sono cambiate, la tecnologia è andata altrove, nei social network, nei motori di ricerca e nelle app. Le prime società che sfruttavano la tecnologia nella finanza hanno lasciato posto alle grandi banche d’investimento, che d’altronde avevano più mezzi e risorse per sviluppare le tecnologie necessarie ad essere più veloci degli altri sul mercato.

Adesso però le cose stanno cambiando di nuovo. Le grandi compagnie tecnologiche stanno trasformando i dati degli utenti in una asset class.

L’obiettivo? Wall Street. «Penso che sia inevitabile», ha affermato Matt Harris, partner della Bain Venture Capital, un fondo di investimento che ha circa 105 miliardi di dollari in attività gestite in tutto il mondo. «Le aziende tecnologiche, grandi e piccole, cercheranno di incorporare pagamenti, prestiti e assicurazioni nei loro modelli di business nei prossimi anni e le banche più intelligenti e capaci vorranno farne parte».

«Non basta regolamentare il settore, quando per anni la classe politica si è disinteressata alle grandi compagnie tecnologiche, affidando ai tecnici la possibilità di intervenire» ha affermato a Linkiesta Evgeny Morozov, sociologo ed esperto di nuovi media.

Invece di fondare istituzioni che potrebbero aiutare le persone più vulnerabili ad affrontare i rischi della digitalizzazione, la politica ha delegato ai regolatori il ruolo di giudice.

«C’è la necessità di pensare di quali istituzioni abbiamo bisogno perché gli stati non vengano completamente sopraffatti. Il risultato altrimenti sarà quello di affidare le sorti di un’intera classe dirigente, probabilmente la meno abbiente, nelle mani di compagnie tecnologiche private che fanno i propri interessi».

Il fatto che il valore finanziario dei tuoi dati dipenda dalla tua posizione, salute e stato sociale, «significa che lo spirito della speculazione non solo invaderà la nostra vita quotidiana, ma renderà la sorveglianza dei nostri dati ancora più allettante».

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