Un presidente destituito, sentenze della magistratura a scandire la vita politica, tumulti nelle strade e intervento energico della polizia: ai catalani questo autunno sembrerà tutto un déjà-vu. Gli ultimi mesi del 2020 a Barcellona e dintorni si preannunciano tesi come negli anni scorsi, dopo che il Tribunale Supremo spagnolo ha inabilitato Quim Torra, il numero uno della Generalitat.
Dopo Puigdemont, un altro presidente destituito
Come accadde tre anni fa, la Catalogna si ritrova dall’oggi al domani senza presidente. Le circostanze però sono molto diverse. Nell’ottobre 2017 Carles Puigdemont fu destituito dopo aver dichiarato l’indipendenza dalla Spagna, a cui il governo di Mariano Rajoy rispose commissariando la regione, con l’applicazione dell’Articolo 155. Allora fu un atto politico, proposto dal governo e approvato dal Senato di Madrid.
Ora invece è un rovescio giudiziario a decapitare la Generalitat. Quim Torra era stato condannato a un anno e mezzo di inabilitazione per disobbedienza: durante la campagna elettorale delle politiche di aprile 2019, aveva esposto uno striscione con la richiesta di libertà per i cosiddetti presos polítics, gli esponenti separatisti incarcerati dopo il tentativo di indipendenza. Considerandolo un messaggio politico, la Giunta Elettorale aveva chiesto a Torra di ritirare lo striscione: di fronte al suo ostinato rifiuto, era arrivata la condanna del Tribunale Superiore di Giustizia catalano. Il 28 settembre il Tribunale Supremo ha confermato la sentenza: Torra è inabilitato per ogni incarico pubblico e, di conseguenza, non può più presiedere la Generalitat.
«Questa è una lesione del diritto di espressione. Una prova in più del fatto che in Spagna non vengono rispettati i diritti umani», dice a Linkiesta il Consigliere per gli Affari Esteri della Generalitat Bernat Solé. L’esponente governativo, che è il corrispettivo regionale del ministro degli Esteri, giudica la sentenza assolutamente spropositata: «Si inabilita un presidente scelto democraticamente dalla maggioranza del suo Parlamento per non aver tolto uno striscione».
Da Bruxelles provano a far sentire la propria voce anche i cinque eurodeputati indipendentisti. Una lettera, ottenuta da Linkiesta, è stata inviata ai presidenti di Commissione, Consiglio e Parlamento europeo. I cinque deputati firmatari, tra cui l’ex presidente Carles Puigdemont, denunciano un problema di Stato di Diritto nel Paese: «Gli ultimi tre presidenti catalani hanno subito accuse giudiziarie per la loro attività politica. […] Siamo sempre più convinti che attualmente nessun politico catalano favorevole all’indipendenza possa ottenere in Spagna un equo processo».
Elezioni a febbraio
Mentre la battaglia legale continua (Torra ha proposto ricorso con sospensiva al Tribunale Costituzionale e perorerà la sua causa fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo), c’è una matassa politica da sbrogliare. A rigor di regolamento, i poteri presidenziali passano ad interim al vice di Torra, Pere Aragonès, mentre il presidente del Parlamento catalano Roger Torrent ha dieci giorni di tempo per consultarsi con i partiti e trovare un nuovo nome.
Una missione praticamente impossibile, fanno sapere fonti interne alla Generalitat. I partiti del blocco indipendentista, Junts per Catalunya ed Esquerra Republicana de Catalunya non troveranno una figura comune. E se anche lo facessero, i loro voti non basterebbero: per l’investitura c’è bisogno almeno dell’astensione della Candidatura d’Unitat Popular (Cup), la formazione secessionista più intransigente che vuole andare a elezioni.
Passato questo termine, il Parlamento viene sciolto nel giro di due mesi, al termine dei quali devono trascorrere 54 giorni prima della nuova tornata elettorale. Calendario alla mano e salvo proroghe causa pandemia, in Catalogna si voterà intorno al 7 febbraio 2021: è la terza volta in sei anni, mentre una legislatura normale dovrebbe durarne quattro.
La campagna elettorale che si profila all’orizzonte sarà ancora una volta basata per i secessionisti sul confronto/scontro con le istituzioni della Spagna. Esquerra, che a livello nazionale ha permesso l’investitura di Pedro Sánchez ed è fondamentale per gli equilibri del Parlamento, ha da tempo intrapreso un dialogo, pur faticoso, con il governo di Madrid. Ma sempre giocando una doppia partita: quella negoziale con l’esecutivo, soprattutto per “liberare” gli indipendentisti in carcere, e quella politica sul territorio, dove contende lo scettro di primo partito a Junts, più incline alla linea dura.
«Il conflitto persiste e non si può risolvere con la repressione o mettendo in prigione più persone possibile. Ma solo attraverso la politica», sottolinea Solé, che specifica come da parte catalana si batterà sempre una strada pacifica e di dialogo, ma con un chiaro obiettivo a lungo termine. «Queste elezioni saranno un’occasione per chi supporta l’indipendenza, ma soprattutto per chi difende i diritti umani, di farsi sentire. L’80% delle persone in Catalogna vogliono decidere il loro futuro attraverso un referendum democratico».
Un forte responso delle urne significherebbe secondo il Consigliere «una situazione irrimediabile per lo Stato spagnolo»: davanti a una nuova affermazione dei partiti indipendentisti, che hanno conquistato la maggioranza nelle ultime due occasioni, il governo centrale dovrebbe necessariamente aprirsi al dialogo.
Nel frattempo però, la contrapposizione con la Spagna potrebbe anche sfociare in un’escalation di toni e dimostrazioni di forza, almeno virtuali. Nell’ultimo atto ufficiale della sua presidenza, Quim Torra ha definito “golpe” la sentenza e fatto appello alla disobbedienza civile, per arrivare alla “rottura democratica” con lo Stato spagnolo. Amnistia per i politici catalani e diritto all’autodeterminazione saranno le bandiere del movimento.
Dalle piazze catalane, tradizionalmente pacifiche, è lecito attendersi supporto e partecipazione, con le conseguenze che la cosa comporta in una regione già martoriata dal Coronavirus: già all’annuncio dell’inabilitazione di Torra si è improvvisata una manifestazione davanti al Parlamento. Dal governo di Madrid arriverà forse disponibilità al negoziato, ma con il tabù categorico dell’indipendenza. Per chi conosce la Catalogna, un film già visto.