In principio fu Ignazio La Russa. Accadeva dodici anni fa (com’eravamo giovani): in uno di quei luoghi fetidi che sono i talk show politici, si spazientì per qualcosa che aveva detto Concita De Gregorio. All’epoca la signora De Gregorio dirigeva l’Unità, e questo è un paese in cui il vocativo «direttore» si usa anche per gente che non dirige più nulla da decenni (ci piace la pomposità trombona, chiamiamo “dottore” anche i laureati in lettere).
Invece La Russa pensò bene d’appellare la signora con «Concitina».
Divenne la scelta più rilevante mai compiuta da La Russa (uno del quale faticherei a citare altre imprese); s’impresse a tal punto nei nostri ricordi che qualche mese fa, quando in un programma radiofonico un uomo politico, di sinistra ma altrettanto spazientito, mi si è rivolto con «Eh no, Guietta», la mia prima risposta è stata «La prego: non faccia La Russa».
Come Britney Spears, martedì sera Concita De Gregorio, ops, l’ha fatto di nuovo. Far imbizzarrire i maleducati è un talento, e lei ce l’ha. Sallusti, collegato con Floris, ha detto «non sono d’accordo con Concita», e lei dallo studio televisivo l’ha interrotto per fargli un cazziatone, impietosa come certe madri che se ne fregano se il figlio sta per superare un certo livello nel tal videogioco.
Ha chiesto perché gli altri li chiamasse per cognome e lei per nome. Quello ha risposto offrendo di chiamarla “dottoressa”. Lei ha insistito: mica voleva titoli di studio per far contenta la zia al paese, voleva sapere perché, se cognome era per tutti, non anche per lei. Floris ha fatto due tentativi d’intervento che in confronto quelli per la pace in Medio Oriente erano stati dei successi. Prima ha detto che probabilmente era (Sallusti) «un accanito lettore» della rubrica di Concita intitolata “Invece, Concita”. Poi che «l’accusa è di sessismo, diciamo, ma in realtà credo sia una maggior affabilità». Il sessismo fa sempre clic, figuriamoci, ma il primo intervento di Floris è più interessante.
Sono così vecchia che mi ricordo di quando “Invece, Concita” fece la sua prima apparizione su D, il femminile che il sabato esce con Repubblica. L’avevano intitolata così, spiegavano gongolanti a Repubblica, perché «il nome di Concita è un logo». In effetti è una buona spiegazione anche per l’ultimo episodio: certi nomi sono un logo, e probabilmente Sallusti non si rivolgerebbe a Mina dicendo «senta, Mazzini».
Era così tanto un logo che le sbagliarono nome. Nel titolo d’una sua rubrica, intitolata col suo nome. Uscì il primo numero, e c’era lì bello cubitale “Invece, Conchita”. Dice la leggenda che, quando la cosa venne pubblicamente sbeffeggiata, centinaia di migliaia (erano anni in cui i giornali si vendevano) di copie del numero successivo, già stampate, vennero mandate al macero.
Guardavo la scenetta svoltasi da Floris e pensavo: in effetti «Invece, De Gregorio» l’avrebbero refusato meno facilmente.
In La linea verticale, la serie televisiva in cui Mattia Torre raccontava il proprio tumore, in ospedale tutti davano del tu al protagonista. Chiunque abbia mai avuto a che fare con la sanità conosce il problema: tu gli dai del lei, loro ti rispondono dandoti del tu. Quando lo fanno commessi o baristi ventenni, sai che il problema è della scuola italiana: non sanno coniugare la terza persona. Tu dici «non mi dia del tu», e loro rispondono «scusa». Ma quando lo fanno primari sessantenni cos’è? Disprezzo? Scarsa considerazione del paziente? Semplice maleducazione?
Questa questione del tu nel vociare tra De Gregorio e Sallusti non è stata posta, perché esiste un’assurda convenzione per cui, se si fa lo stesso mestiere (pare che De Gregorio e Sallusti facciano lo stesso mestiere), ci si dà del tu. Anche se non ci si è mai visti prima, anche se uno ha il doppio degli anni dell’altro.
Tuttavia, mentre Concita De Gregorio protestava perché voleva essere chiamata per cognome come all’appello delle scuole medie (in effetti il contesto più simile ai talk politici che mi venga in mente), continuavo a pensare a due medici del mio passato recente.
Uno che mi chiamava «cara» e «tesoro» e che, alla seconda volta in cui gli ho detto «no, però “cara” e “tesoro” no», mi ha chiesto con impermalito stupore come avrebbe dovuto mai chiamarmi (poi si è arreso a chiamarmi “signora”, pronunciandolo ogni volta con l’intonazione che avrebbe dato a “brutta stronza”).
E uno che, quando gli ho chiesto perché mi desse del tu visto che io gli stavo dando del lei, mi ha chiesto con toni da bullo ferito «devo darti del voi?» (no, non era meridionale; non stava offrendo un approccio formale, stava facendo un patetico tentativo di sbeffeggiare i formalismi: uno mai visto prima, e che stavo pagando per farmi un esame medico).
Quest’ultimo mi è venuto in mente quando, fingendo di credere che la signora De Gregorio volesse essere chiamata “dottoressa”, Sallusti ha rivoltato la frittata vittimista aggiungendo «non puoi mescolarti agli ignoranti».
Non mi è venuto in mente perché quel medico ha poi così clamorosamente sbagliato l’esame da dare il via a mesi di casini, e io mi sono quindi convinta che quelli che non sanno usare i toni formali non sappiano neanche fare il loro lavoro.
Mi è venuto in mente perché mi sono convinta sia una nuova forma di autodifesa, nata quando il sessismo ha iniziato a essere l’accusa più cliccabile e la garanzia che quel video lo guarderanno proprio tutti. Per non uscirne del tutto cafone, devi avere un altro -ismo con cui ribattere.
Se non ci sono appigli, anche debolissimi, per comunismo, razzismo, abilismo (come nei talk di quand’eravamo giovani), va bene persino una linea difensiva deliziosamente antiquata: questo è classismo, cara lei.
Vuoi che ti dia del voi. Vuoi che ti chiami dottoressa. Vuoi impedirmi l’affabilità con cui ti chiamo per nome o per vezzeggiativo o per “tesoro”. Vuoi inibirmi la confidenza dichiarandomene pubblicamente non all’altezza. Sei classista, cara te.