Il Pd all’opposizione di sé stesso dovevamo ancora vederlo, ma oggi è il giorno della Grande Contraddizione che verrà celebrata in una riunione della Direzione piuttosto grottesca, convocata per decidere il già deciso: il Sì al referendum antipolitico sulla riduzione dei parlamentari. Una «farsa», dicono gli oppositori di Nicola Zingaretti che pure interverranno ma che alla fine non voteranno la relazione del segretario, uno strappo da remoto senza mormorii né applausi, una riunione senza solennità né convinzione ma esemplare nella sua mestizia e nella sua impotenza.
Non può muoversi, il Pd, imbrigliato in un patto di governo del tutto simile a una camicia di forza che blocca sul nascere qualunque libertà al di fuori del perimetro disegnato dal Movimento Cinque stelle all’atto della nascita del governo Conte: e in questo perimetro com’è noto c’è il taglio casuale del numero dei deputati e dei senatori, specchietto per le allodole in versione riformista un tanto al chilo.
Già, il Pd va all’opposizione di sé stesso ma non nel senso che don Primo Mazzolari attribuiva a questa espressione, cioè come un atto di libertà e di umiltà: al contrario, il Pd va a sostenere un Sì lontano dal libero sentire di tanta parte della sua stessa base che avverte che è ora di dire basta alla campagna antiparlamentare dei grillini, e forse vorrebbe scrollarsi di dosso la cappa soffocante della propaganda di Luigi Di Maio e Vito Crimi.
Infatti le ricerche dicono di una larga fetta di elettori democratici pronti a votare No, e anche una porzione rilevante dei parlamentari (non sapremo mai quanto ampia) nel segreto dell’urna non obbedirà alla indicazione di Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini di votare Sì, proprio loro due che per primi avevano denunciato «problemi per la democrazia» se al taglio dei parlamentari non si fosse accompagnata una nuova legge elettorale di cui però vi è solo una pallida traccia in Commissione di uno dei rami del Parlamento. Non saranno certo solo Tommaso Nannicini, Gianni Cuperlo, Matteo Orfini, Giorgio Gori e tutti gli altri che si stanno battendo per il No a votare in dissenso dal partito, o quelli che come il ministro Lorenzo Guerini lo hanno fatto intuire. È che il fenomeno sta salendo dalla base, se non è un fiume in piena sicuramente basta a evitare il plebiscito, e forse anche di più…
È questa realtà che rende il Sì di Zingaretti intriso di imbarazzo se non di vergogna, ed è singolare sentire un leader come Paolo Gentiloni dire che seguirà le indicazioni del Partito senza beccarsi mezzo applauso dalla platea della festa dell’Unità («Non mi sarei applaudito neanche io…»), una platea a quanto pare stanca di una linea ferma come quella dell’orizzonte, oltre il quale regna l’incognito.
Forse sarebbe stato più dignitoso, perché più vero, non dare proprio indicazione lasciando libertà completa di voto a iscritti e elettori, sarebbe stata un’operazione di sincerità il dire che «sia il Sì sia il No esprimono ragioni legittime, non siamo in grado di decidere» invece di far prevalere una finta maggioranza tenuta assieme esclusivamente da una ragione di tattica politica per quanto importante ai fini dell’unità delle forze governative.
Ma il punto è che il referendum per sua natura deve essere posto al riparo dalle logiche di governo, invece qui si sono anteposte queste ultime al merito del quesito. E malgrado tutte le acrobazie dei giuristi prestati alla politica, fa fede, per quanto riguarda i democratici, un post dei gruppi parlamentari dell’anno scorso, quando il partito di Zingaretti ancora votava No: «È una pessima riforma che fa molto male alla democrazia rappresentativa, è parte di un disegno pericoloso che ha come unico obiettivo quello di restringere il ruolo e la funzione del Parlamento. Una legge demagogica che agisce brutalmente nello svuotare la democrazia parlamentare, piegando la Costituzione per un’azione di propaganda politica». Ecco, appunto, il manifesto per il No lo scrisse lo stesso Pd che oggi dirà all’Italia di votare Sì, nel più triste dei girotondi della politica.