Può sembrare lunare ma nel Pd la discussione è tornata al punto di partenza come in un gioco dell’oca nel quale i dadi siano impazziti: e cioè alla mitica vocazione maggioritaria. Improvvisamente stanno riaffiorando con chiarezza le solite due linee: partito largo e in grado di riassumere in sé tutte le tendenze del centrosinistra italiano o partito più identitario e proteso alle alleanze com altri soggetti. Quest’ultima è la linea di Goffredo Bettini e Dario Franceschini, la prima è stata rilanciata da Stefano Bonaccini. Un po’ sbrigativamente si potrebbe dire che siamo ancora a Veltroni contro D’Alema.
In mezzo c’è un segretario come Nicola Zingaretti in bilico fra le due posizioni e che pare piuttosto stanco di dibattiti di questo tipo mentre il Paese ha ben altro da pensare (di qui la ricorrente sua tentazione di trasferirsi a Palazzo Chigi come vicepremier), un segretario che probabilmente subisce un andazzo non proprio gradito, quello di un partito troppo basato su interessi di gruppo.
I dirigenti si mostrano sempre infastiditi dalle critiche, ma l’impressione generale è che il Pd non faccia nulla per puntare a una percentuale più seria di quel 20 per cento cui è inchiodato da due anni. Infatti, teorizzare un «attacco a tre punte»(Bettini), cioè la famosa alleanza strategica Pd-M5s più i riformisti che Renzi dovrebbe guidare, implica esattamente la rinuncia del Nazareno a costituire, lui direttamente, il grande partito riformista e di sinistra in grado di competere con una destra che peraltro Matteo Salvini sta picconando ogni giorno.
Bonaccini ha detto che nel partito dovrebbero stare anche Renzi e Bersani. Al netto dei nomi, effettivamente ingombranti e che peraltro non sembrano aver voglia di smontare le loro casette, il punto riguarda la conquista degli elettori «che se ne sono andati» (così ha detto il governatore dell’Emilia-Romagna) e l’identificazione del Pd come partito aperto.
Qualcosa si sta muovendo. La crescita del No al referendum grillino sul taglio dei parlamentari è anche dovuta ad un ritrovarsi di spezzoni della sinistra più o meno storica sin qui dispersi e isolati; non solo, ma anche in grado di dialogare con speculari pezzi di una nuova sensibilità di sinistra millennial e post-populista (Sardine, Elly Schlein, nuove istanze verdi); e infine al ritrovato protagonismo di liberal e riformisti. Un moto che fa sì che nel Pd convergano sul No esponenti della sinistra come Gianni Cuperlo e riformisti come Giorgio Gori.
In questo contesto di battaglia politica sembrano avvicinarsi personalità finora distanti e moltiplicarsi le iniziative: Matteo Renzi e Carlo Calenda insieme a Bari a sostegno di Ivan Scalfarotto; la manifestazione di Santi Apostoli a Roma; quella del 18 a Milano con un parterre che sembra il groppo dirigente del riformismo italiano (da Marco Bentivogli a Carlo Cottarelli, da Giorgio Gori a Tommaso Nannicini, da Emma Bonino a Carlo Calenda); fino agli importanti colloqui informali che ci sono stati e ci saranno dopo il voto fra i più noti di quelli che abbiamo citato.
Insomma, il vento del No, qualunque sarà l’esito del referendum, potrà rinfrescare l’aria pesante che da tempo toglie il respiro al centrosinistra italiano. E se saprà soffiare anche sulla montagna incantata di via del Nazareno aiutandone l’evoluzione da bunker a grande tenda del riformismo allora la partita con la destra potrà riaprirsi.