La scuola italiana è più che mai la metafora perfetta dello stato del Paese: problemi tecnici di ripartenza, infrastrutture decadenti, buchi occupazionali, logiche vecchie e superate rispetto al tempo attuale. Delle grandi fantasie di ripensamento sfoderate durante il lockdown, dove si sognava di riempire finalmente i buchi dell’istruzione (oltre che della sanità) per lanciare uno sviluppo diverso, al momento della riapertura gli ambiziosi progetti sembrano essere stati accantonati, oscurati da ritardi, supplenti, “rime buccali” e percentuali di riempimento degli autobus.
Risultato: nella “nuova normalità” tutto sembra tornare come prima, ma un po’ peggio. Le persone si sono riadattate come potevano, fra chi ha lasciato casa nella grande città per tornare “al paese” e risparmiare i soldi dell’affitto, aziende che dismettono gli uffici, lavoratori che faticano a bilanciare ritmi di vita e telelavoro, e studenti ancora in balia di potenziali chiusure.
Bisogna ancora aspettare di vedere se il southworking e lo spopolamento delle grandi città si affermeranno come trend destinati a durare. Ma l’impressione è che si tratti di più di una parentesi. E non è semplicemente questione di lavorare da casa o da un coworking (non a caso Ivana Pais, sociologa dei processi economici e del lavoro all’università Cattolica, parla dell’emersione di questi spazi ibridi come potenziali «catalizzatori di economie locali attorno a cui riorganizzare i servizi alla persona»).
Improvvisamente, infatti, l’aspetto locale sembra aver preso il sopravvento, quando si tratta del benessere di cittadini, famiglie, lavoratori. Le scuole sono naturali protagoniste di questa dimensione: tanto che c’è chi invita a metterle al centro del processo di reinvenzione della normalità. È il caso di Vito Emilio Piccichè, dirigente scolastico di un istituto a Camporeale, in Sicilia, il quale ha proposto un ambizioso piano di rilancio della sua comunità attraverso una serie di azioni organiche e strutturate: il rilancio della scuola, lo sviluppo della rete telematica, di quella ferroviaria e viaria, della rete ospedaliera e dei presidi sanitari locali, con un corollario di incentivi e sgravi fiscali e un grande evento internazionale per sostenere il turismo e contrastare lo spopolamento.
Ripartire dalle realtà locali per costruire comunità più coese e sostenibili, da tutti i punti di vista: per la prima volta, attraverso il programma europeo Next Generation EU, potrebbe non essere utopia. Rimettere la scuola al centro delle comunità e renderle ecosistemi aperti, di cui tutti possano fruire, perché fonti di servizi e catalizzatori dell’economia.
Infrastrutture digitali
Il ritardo nella copertura digitale del paese è uno dei nodi più impellenti e una delle maggiori cause di disuguaglianza all’interno del paese. Basti pensare che, secondo l’Istat, meno della metà (il 41%) delle PA locali, scuole comprese, accede a Internet con connessioni veloci (almeno 30 Mbps), e solo il 17,4% con quelle ultraveloci (almeno 100 Mbps).
Il Piano Colao ha offerto degli spunti che sembrano essere stati almeno in parte recuperati nella bozza degli interventi studiati dal Comitato interministeriale per gli affari europei e presentati a palazzo Chigi per usufruire del Next Generation Eu. Nella bozza si parla infatti del raggiungimento delle «sedi pubbliche e tutti i siti produttivi con servizi a velocità fino a 1 Gbits con reti VHCN», del «completamento delle aree bianche residue (ovvero quelle non raggiunte dalla banda) per circa 1,1 milioni di unità immobiliari», e «interventi infrastrutturali finalizzati allo step change del servizio di connettività nelle aree grigie, aree nelle quali è attivo un unico operatore di rete» (si parla di 17 milioni di unità immobiliari). In più, la proposta è di «favorire la transizione digitale ed il superamento del digital divide in ambiti prioritari quali la scuola, il turismo anche culturale e la sanità attraverso la posa della fibra ottica» e di «favorire l’incentivazione della domanda di connettività a banda ultralarga». I piani sulle aree bianche e grigie sarebbero completati entro il 2021, e il progetto concluso entro il 2026.
Rimane però anche un altro tipo di digital divide da chiudere, quello dell’alfabetizzazione digitale: tra le famiglie italiane, per esempio, più di una su due, tra quelle senza connessione, non ha internet perché non sa usarlo. Ed anche fra le piccole imprese, quelle con meno di 10 dipendenti, una su cinque non ha nemmeno un pc.
A scuola, nonostante i passi avanti fatti per attuare la didattica a distanza durante il lockdown, alla riapertura delle scuole comunque uno studente su cinque non ha ancora un device, secondo un recente sondaggio di Skuola.net. Al Sud si arriva addirittura a quasi due su cinque, e inoltre l’80% di quelli che non hanno provveduto neanche durante il lockdown a procurarsene uno, non è intenzionato ad acquistarlo per il back to school. Le scuole, del resto, stanno ritornando alle classiche dinamiche, puntando sui libri di testo cartacei: le tendenze d’acquisto sono le stesse dello scorso anno (circa 200-300 euro per testi prevalentemente nuovi), e il ricorso agli eBook rimane un fenomeno marginale.
In più, nonostante il governo abbia confermato la prosecuzione della didattica a casa per i liceali (e anche per tutti gli altri in caso di un nuovo lockdown), le linee guida ministeriali per la didattica digitale integrata sembrano ricalcare semplicemente quelle per la didattica a distanza del lockdown, lasciando alle singole scuole grande autonomia nello stabilire come utilizzare metodologie come la flipped classroom e il peer learning. Il che rischia di lasciare indietro quelle che già erano in difficoltà. Il ministero ha erogato corsi di formazione ai docenti durante il lockdown, certo, ma ancora molto lavoro resta da fare: ancora bisogna vedere quante risorse otterrà la formazione del personale con il Next Generation Eu.
Infrastrutture fisiche
È probabile che non sarà un tunnel o un ponte attraverso lo stretto di Messina a colmare il gap infrastrutturale presente nel paese, specialmente al Sud. Le linee guida per il Next Generation EU prevedono il completamento dei corridoi ferroviari europei, l’alta velocità per passeggeri e merci e interventi per la mobilità sostenibile pubblica e privata, ma ancora resta da vedere fino a che punto sarà implementato il piano “Italia veloce” della ministra De Micheli.
E se il governo intanto ha stanziato fondi per mettere in campo più mezzi e personale per il trasporto pubblico locale (chiudendo finalmente un lungo braccio di ferro con gli enti locali sulle percentuali di riempimento dei mezzi pubblici), d’altra parte ci vorrà un po’ per abituarsi ad una nuova normalità. Secondo un altro sondaggio di Skuola.net, per esempio, alla riapertura sei studenti su dieci eviteranno di prendere metro, bus, tram, scuolabus, treni e altro per recarsi a scuola. Il 34% prevede di spostarsi con mezzi privati (il 74% di questi accompagnati dal genitore, nove su dieci in macchina) o a piedi (25%), e fra quelli che si muoveranno in autonomia il 45% opterà per la bicicletta e il 26% per il motorino, mentre quasi uno su due fra i maggiorenni userà la propria auto. Il traffico, insomma, si prospetta in aumento.
Lungimirante in questo senso Legambiente, che nel suo Osservatorio Ecosistema scuola raccomanda di rafforzare la mobilità ciclopedonale intorno agli istituti (solo il 18,4% degli edifici scolastici ha piste ciclabili nelle aree antistanti). Considerando poi come nel paese ci siano zone estremamente poco servite – il 65,8% delle scuole è raggiungibile con lo scuolabus, il 51,9% da trasporti pubblici urbani e il 42,1% da trasporti pubblici interurbani – ripensare il trasporto anche in ottica scolastica è una partita fondamentale.
In più, servono interventi non più procrastinabili anche in edilizia: Legambiente ricorda come quasi il 30% degli edifici scolastici necessiti di manutenzione urgente: il 58,9% non ha l’agibilità e solo il 6,4% è in classe energetica A. Poche strutture, il 13,9%, hanno servizi di pre e post scuola, meno della metà (46%) dispone di strutture per lo sport, tra palestre e impianti sportivi all’aperto; una percentuale limitata (32,2%) è poi quella delle scuole che hanno strutture sportive che vengono aperte al pubblico in orario extrascolastico, mentre fortunatamente più alto è il numero degli edifici (63,9%) che dispongono di giardini o aree verdi fruibili. Si tratta di dati importanti su cui riflettere nel momento in cui si punta a reinventare la didattica (tramite le lezioni all’aperto, per esempio) e immaginare una scuola più aperta alla comunità circostante.
La didattica
Teoriche e fautrici (nella primaria IV Novembre di Varese) di una didattica completamente diversa da quella che conosciamo, sono Francesca Antonacci e Monica Guerra, pedagogiste e docenti all’università di Milano Bicocca.
Il loro modello è quello di “Una scuola”, manifesto che valorizza proprio la dimensione della comunità come valore fondativo dell’apprendimento, la partecipazione (anche delle famiglie) e il dialogo «tra la forma interna della scuola e quella esterna, perché sia possibile incidere all’interno e all’esterno di essa». Una scuola, insomma, che si nutre del territorio e lo nutre a sua volta, in un interscambio collaborativo costante.
Nella scuola delle pedagogiste, infatti, banchi e voti non esistono, soppiantati invece da spazi dedicati a diversi linguaggi (scientifici, espressivi e artistici, umanistici e antropologici) e spazi comuni. Non ci sono compiti a casa né classi, ma lavori in gruppo (fluidi e omogenei o eterogenei per età, a seconda delle attività) che consentono di imparare attraverso l’esperienza diretta e il gioco, favorendo le inclinazioni di ciascuno. Un grande ruolo è giocato dal contatto con la natura, così come dall’espressione artistica.
Sono concetti che, almeno in parte, il ministero aveva tentato di proporre nelle linee guida per la ripartenza, e che però non sembra siano state adottate in larga misura.
«Non c’è mai stata da parte nostra l’ingenuità di pensare che la scuola si sarebbe rivoluzionata in toto. Io posso fare lezione in classe o su una stazione spaziale, ma se non si cambia uno stile di insegnamento, si ritorna sempre allo stesso problema», spiega Francesca Antonacci a Linkiesta. «Si tratta di un processo lungo, ma i semi vanno gettati. L’apertura all’esterno e il superamento delle classi previsti dalle linee guida sono spinte in positivo, ma sostanzialmente si è persa l’occasione per investire in formazione strategica degli insegnanti, non solo sulle tecnologie ma per le metodologie».
Al netto delle direttive e degli investimenti ministeriali, però, per la pedagogista sono le scuole stesse a dover prendere coraggio sulla didattica: «La nostra legislazione scolastica è tra le più innovative, fin dal 2012 non si prevedono più i “programmi” ma dei traguardi da raggiungere. Tutto sta all’immaginario delle persone. In Italia ci sono insegnanti straordinari che però da soli non hanno la forza istituzionale di coinvolgere gli altri, e anche gli stessi dirigenti possono avere difficoltà a declinare la propria scuola in una direzione», dice ancora Antonacci. Per questo «un pedagogista può essere una figura utile per ascoltare tutti gli attori e progettare i risvolti dell’innovazione, tenendo ben fermo a mente che si tratta sempre di una concertazione degli obiettivi, comprendendo anche le famiglie».
«Ricollegarsi con il territorio significa pensare la scuola e viverla in senso veramente politico, come un grande vettore di formazione civica e sociale», aggiunge Antonacci. «Io credo che la scuola sia un grande laboratorio di democratizzazione, lì dove ci sono tante disparità a livello socioeconomico. Bisogna pensare la scuola come comunità che spinge e dà direzione alla comunità allargata. Perché lì dentro ci sono i figli di tutti».
Il terzo settore
Molte sono le realtà del no profit e le imprese sociali che da anni operano nelle scuole con progetti e attività. Non è un caso se le linee guida per la riapertura delle scuole li prevedevano a pieno titolo, per consentire sia il reperimento di altri spazi che per favorire l’offerta di una didattica “alternativa”. Fondazione Mondo Digitale è fra i principali protagonisti, attiva da quasi vent’anni per portare la didattica innovativa nelle scuole e al contempo contrastare i fenomeni della povertà educativa e della dispersione scolastica. Ne sono da esempio il modello delle “Palestre dell’innovazione”, spazi di incontro dove si offrono strumenti didattici, laboratori di ogni genere, dai fab lab alla robotica, e ambienti esperienziali dove ciascuno può costruire il proprio percorso educativo con creatività e autonomia.
«Questa pandemia ha spazzato via qualsiasi dubbio sul digitale come infrastruttura moderna necessaria. Il lockdown ha rappresentato un grande esperimento di innovazione collettiva con la didattica a distanza, ma sappiamo che quella non è la scuola. Per questo noi puntiamo sulla “firtualità”, dove al virtuale si aggiunge anche il fondamentale aspetto dell’incontro», spiega a Linkiesta Mirta Michilli, direttore generale della Fondazione. «Noi raggiungiamo ogni anno 60mila studenti attraverso una rete di insegnanti innovatori: la nostra però è una sola delle proposte educative, ciò che manca è la capacità di mettere a fattor comune il lavoro e trasformarlo in innovazione sistemica».
Fondazione Mondo Digitale da sempre si concentra sulle scuole più svantaggiate. Esempio concreto è quello di Open School, un progetto che coinvolge un gran numero di organizzazioni, da ActionAid a Cittadinanzattiva, portato avanti in 12 scuole scuole nelle periferie di Bari, Milano, Palermo e Reggio Calabria. L’obiettivo è un’istruzione di qualità e inclusiva e la trasformazione della scuola in un punto di riferimento non solo per i ragazzi e le ragazze, ma anche per le famiglie e il territorio.
L’Ics Sperone-Pertini di Palermo, nel quartiere periferico Sperone, è l’esempio più calzante della riuscita del progetto: la scuola di Antonella Di Bartolo ha ridotto la dispersione scolastica del 27% al 3% negli ultimi sette anni, e non a caso la dirigente ha vinto il premio Tullio De Mauro come dirigente innovatore.
«Con il progetto Openspace facciamo percorsi di formazione non solo per i ragazzi ma anche per i docenti, dall’utilizzo dei kit di robotica alla costruzione di microcircuiti e così via. Questo ci ha aiutato molto durante il lockdown, in parte perché già avevamo un buon numero di attrezzature che potevano essere usate nella didattica a distanza, in parte perché tutti avevano già delle competenze digitali di base», racconta la dirigente. «Si tratta non solo di dare nuove competenze, ma di aprire finestre e immaginari differenti».
Per questa dirigente e per i suoi studenti, tornare a scuola ora è un momento doppiamente significativo: «noi durante il lockdown abbiamo subito tre raid, un misto di vandalismo e furto. Atti mirati secondo me, perché ci sono scuole che sarebbero molto più “ghiotte” della nostra». Gli attacchi, infatti, sono avvenuti in concomitanza con la condivisione sui social, da parte della dirigente, di un’intervista a Maria Falcone, critica sulla scarcerazione dei boss mafiosi durante il lockdown. «In quel momento c’è stata una levata di scudi da parte di ragazzi e famiglie in difesa di questa scuola, l’intero quartiere l’ha vissuta con grande vicinanza», spiega Di Bartolo.
Il legame con il territorio è forte, e non solo quando si tratta di episodi come questo. «Con il lockdown i rubinetti del lavoro sommerso, che qui è molto diffuso, si sono chiusi immediatamente, mettendo molte famiglie in difficoltà. Noi quindi ci siamo attivati per la distribuzione di beni alimentari, abbiamo aiutato 55 famiglie con buoni spesa, attivato un servizio di sostegno psicologico e fatto tutorial per aiutare le persone a registrarsi sui siti governativi e ricevere aiuti». Ora ripartiranno con un murale fatto dai ragazzi per il quartiere, attraverso il loro laboratorio di rigenerazione urbana che coinvolge anche l’ordine degli Architetti e il Comune di Palermo. «Ho partecipato alla riunione di condominio del palazzo dove sarà fatto il murale insieme al pittore: una scena!», dice De Bartolo. Nella scuola che si affaccia sulla piazza di spaccio più grande della Sicilia, condivisione e integrazione sono più che buone pratiche.
Fortunatamente, non tutte le scuole si trovano in contesti difficili, ma tutte possono trarre buoni esempi per essere davvero protagoniste del proprio territorio. «In Italia ci sono tantissime realtà scolastiche con reti territoriali molto forti, che però non riescono ad emergere. Fare rete non è una cosa di adesso, si fa fin dagli anni ’70» puntualizza Antonacci. «Ora bisogna riprendere in mano tutto. Mi sembra che l’attenzione ci sia, intanto è importante raccontare l’esistente, che è ricchissimo, e poi guardare al futuro con un po’ di coraggio e determinazione per provare cose inedite. Tutti quanti, a partire dai docenti».