Che senso ha pagare più di mille dollari per una stanza in centro a New York quando si può lavorare da casa in qualunque città degli Stati Uniti? Perché rimanere attaccati a metropoli dai prezzi esorbitanti se gli uffici sono chiusi?
Sono domande ricorrenti nel dibattito pubblico mondiale, a cui molti stanno rispondendo in modo netto: non vale la pena, il futuro delle grandi città americane e mondiali è a rischio. Il New York Times ha pubblicato un lungo articolo su questo tema, raccogliendo molte testimonianze della middle class americana, convinta di lasciare i costosissimi e piccoli appartamenti delle metropoli per tornare a vivere nelle città di origine. L’analisi è che il coronavirus potrebbe rappresentare una cesura storica per gli agglomerati urbani che spesso contano, o tendono a contare, più di Stati sovrani per prodotto interno lordo, capacità decisionale, attrattività internazionale, proiezione geopolitica.
«Le città più piccole potrebbero beneficiarne, se non è necessario andare in ufficio più di due volte all’anno allora i lavoratori più qualificati in posti come Seattle e Los Angeles potrebbero preferire vivere a Boulder o a Vail», scrive Eduardo Porter in un altro articolo sul New York Times.
Eppure la città è da sempre il centro della globalizzazione, e il suo ruolo è sopravvissuto a guerre, rivoluzioni, pandemie. Sostenere che adesso tutto questo cambierà è prematuro, sostiene Jean-Louis Missika, assessore a Parigi dal 2004 al 2020, prima con la delega all’innovazione e poi all’urbanismo: «Partiamo da un presupposto, e cioè che l’umanità in futuro non vivrà la maggior parte dell’anno in lockdown e che in qualche modo l’emergenza sarà risolta. Se è così, se riusciamo a risolvere il problema dello stare insieme, difficilmente le grandi città cesseranno di essere il centro politico economico e commerciale della nostra società».
Partendo da questo presupposto, molti esperti contattati da Linkiesta si sono mostrati scettici sul crollo delle città-mondo, degli agglomerati urbani come New York, Parigi, Londra, per certi versi anche Milano, che racchiudono tutte le potenzialità della globalizzazione, un fenomeno certamente accelerato durante il novecento, ma in corso dal Medioevo. È nelle grandi città che si accentra la ricchezza, è qui che si decidono i processi politici, è da qui che passa il commercio mondiale.
«Vede un insieme che è molteplice senza disordine; vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti. Nessuna di quelle opere, è vero, lo impressiona per la sua bellezza; lo toccano come oggi si toccherebbe un meccanismo complesso, il cui fine ignoriamo, ma nel cui disegno si scorgesse un’intelligenza immortale. […]Bruscamente, lo acceca e lo trasforma questa rivelazione: la Città. Sa che in essa egli sarà un cane, un bambino, e che non potrà mai capirla, ma sa anche ch’essa vale più dei suoi dèi e della fede giurata e di tutte le paludi di Germania».
Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, ragiona sull’attrazione che continueranno ad esercitare i grandi centri urbani: «Se questo stato di cose dovesse perdurare per anni è chiaro che il disegno urbanistico si dovrà adattare, gli immobili per esempio potrebbero essere congegnati diversamente, forse bisognerà prevedere uno spazio destinato al lavoro negli appartamenti. Ma legare cambiamenti interni al tessuto urbano a una una perdita di centralità delle metropoli lo trovo eccessivo, perché le città si abitano non soltanto per il posto di lavoro fisico, ma anche per tutto il resto che possono offrire: si sta in un ambiente urbano perché è qui che ci sono le opportunità, lavorative certo, ma anche sociali e culturali. Insomma, è sbagliato ridurre una città ai suoi uffici».
La tendenza ad abbandonarli però è piuttosto indicativa: come riporta il Financial Times, nella City di Londra la maggior parte delle società non ha alcuna fretta di far tornare i dipendenti in sede, stessa cosa hanno deciso grandi aziende come Google (non si tornerà in ufficio prima della primavera 2021), mentre Facebook è andato addirittura oltre, annunciando che entro 10 anni la metà dei suoi dipendenti non tornerà in ufficio.
Stefano Boeri, architetto milanese, ex assessore alla Cultura di Milano, in piena pandemia aveva spiegato a Repubblica che il lockdown avrebbe cambiato profondamente il rapporto tra i grandi centri e chi li abita, probabilmente spingendo la popolazione urbana ad andare a vivere in campagna: «Chi ha una seconda casa ci si trasferirà o ci passerà periodi più lunghi. Salviamo i piccoli centri abbandonati con un progetto nazionale».
Il punto, ragiona Michele Grimaldi, saggista e autore de La Macchia Urbana, un’analisi delle dinamiche di crescita e sviluppo delle città, è che un fenomeno diventa strutturale quando la tendenza investe un numero molto elevato di persone. E difficilmente questo è il caso: «In un ecosistema complesso come quello delle città-mondo, quanti sono quelli che possono fare tutto da lontano? Non certo la maggioranza, e nemmeno una massa critica tale da far cambiare il paradigma a cui assistiamo da centinaia di anni: il genere umano si concentra nelle città, il ritorno in campagna e a una vita bucolica riguarda una piccola classe di privilegiati».
Esiste poi un tema molto rilevante, soprattutto per delle società che invecchiano come quelle occidentali: i servizi per gli anziani sono nei grandi centri così come gli ospedali migliori, i circoli ricreativi e le occasioni di svago culturale. È molto probabile che questo non cambierà, ed è uno dei tanti fattori che spingeranno le persone a rimanere nelle metropoli. «Le città continueranno a essere catalizzatori, perché sono i luoghi che ospitano gli ospedali, l’economia informale, i servizi, le opportunità. La stratificazione degli spazi urbani non nasce negli ultimi trent’anni, è un fenomeno di lunghissima durata che non può essere replicato su più piccola scala in breve tempo», dice Grimaldi.
Eppure a molti potrebbe sembrare conveniente: vendere il proprio appartamento al centro di una grande città e comprarne uno più grande, magari con giardino, in un centro più piccolo, per poi tornare nella metropoli soltanto quando è proprio necessario. Grimaldi non è convinto: «Il presupposto di questo ragionamento è che le proprietà immobiliari manterranno intatto il loro valore. E invece, se il flusso in uscita diventerà davvero rilevante, il mercato immobiliare dei grandi centri crollerà, impedendo a chi possiede un solo appartamento di venderlo per andare altrove. Considerato che quasi il 90% delle famiglie italiane possiede la casa dove abita, mi risulta difficile immaginare un simile esodo. Questo discorso vale, forse, per i più giovani, che sono in affitto e lavorano per multinazionali o aziende che operano nei servizi. E tutto il resto? Sarebbe un movimento che interessa soltanto i più ricchi e i più qualificati».
Secondo Jean-Louis Missika, la questione è anche numerica: «Immaginiamo che un milione di persone che oggi abita nel Grand Paris o nella Greater London decida di trasferirsi in centri più piccoli. Queste possono trovare alloggi disponibili in altre città? I servizi delle città medie sono in grado di assorbirle? Mi risulta difficile crederlo».
Senza considerare anche il fatto che, per queste professioni in teoria capaci di abbandonare i grandi centri per lavorare da remoto, la presenza fisica è importante per afferrare nuove occasioni, costruirsi una propria rete di contatti, partecipare a eventi (per quanto con distanziamento), approfittare delle opportunità che una grande città offre anche in termini di tenore di vita.
In più, secondo Giovanni Semi, sociologo dell’università di Torino, l’allontanamento dai grandi centri e l’abbandono degli uffici, su cui negli ultimi trent’anni si sono fatti investimenti cospicui, non è nell’interesse di tutti gli attori geopolitici delle città-mondo: «Si aprirà sicuramente uno scontro di potere tra grandi interessi divergenti. La governance delle città non accetterà supinamente le decisioni delle grandi imprese di imporre ai dipendenti lo smart working, come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Milano Beppe Sala in tal senso. Questo terreno di scontro è evidente. Dopodiché entrerebbero anche altri attori in campo: le grandi torri sono spesso finanziate da fondi e banche, questi soggetti vorranno rientrare dagli investimenti fatti e sicuramente cominceranno a esercitare pressioni sulle multinazionali affinché tutto torni alla normalità, magari con qualche accorgimento nella gestione degli spazi».
Il conflitto si sposterà anche sull’accesso ai beni pubblici, agli eventi, agli spostamenti: se la piena capacità di edifici, teatri, cinema, treni e aerei non potrà più essere raggiunta, i costi aumenteranno, e a pagarli sarà il consumatore finale. Se cinema, teatro, treno e centri sportivi diventeranno più cari è evidente che a farne le spese saranno i soggetti con meno disponibilità economica.
Giovanni Semi è convinto che questo tema potrebbe essere cavalcato politicamente: «Per ora nessuna forza politica sta ragionando su questi temi, ma è chiaro che in questo momento si stanno mettendo in atto dinamiche che incideranno su aspetti di vivibilità e di accesso agli spazi urbani. E ci saranno per forza di cose degli scontenti che cercheranno qualcuno in grado di rappresentare le loro istanze».
Il contesto, fino a prima del Covid, era di grande competizione tra i grandi centri urbani. Basti pensare alla rincorsa di Milano per ottenere la sede dell’agenzia europea del farmaco (Ema), o agli sforzi di Parigi e Tokyo per vincere l’organizzazione dei giochi olimpici. La pandemia non fermerà questa competizione, anzi, premierà chi resisterà al momento di stallo, spiega Agostino Petrillo, professore di sociologia urbana al Politecnico di Milano: «Sul lungo termine i flussi di capitali, merci e persone non si fermano, si riorientano. Alcune città più colpite e meno attrezzate declineranno e perderanno posizioni all’interno della gerarchia globale delle metropoli, altre le rimpiazzeranno: gli investimenti possono essere ridimensionati in un’area geografica e aumentati in un’altra. La competizione globale non verrà smorzata dalla pandemia, ma diventerà molto più feroce».
Anche perché la tendenza che ha visto le città-mondo diventare degli attori geopolitici di primo piano difficilmente si affievolirà, soprattutto a causa della sfida più grande che il genere umano ha di fronte a sé: il cambiamento climatico. E per affrontarlo, Jean Louis Missika non è affatto convinto che abbandonare le grandi città sia una scelta azzeccata: «Se il nuovo principio è l’abitabilità dispersiva ci sono tre conseguenze da tenere in conto, nessuna delle quali positiva per l’ambiente: bisogna costruire nuovi alloggi, e quindi si causa l’impermeabilizzazione del suolo; si incentiva uno stile di vita dove l’automobile diventa fondamentale per muoversi, e si allontanano le persone dai servizi pubblici essenziali. Esistono degli inconvenienti a un modello di sviluppo imperniato sulla densità urbana, ma l’alternativa è la dispersione, ed è dannosa».
E da ex amministratore di una delle capitali che ha speso più energie per affrontare in modo coordinato le conseguenze dell’aumento delle temperature, Jean Louis Missika si dice convinto che la scala giusta per adattarsi a quello che accadrà, sono proprio gli spazi urbani: «È chiaro che il futuro della governance globale di questi fenomeni si gioca nelle città-mondo, forse addirittura più che a livello nazionale».
E in ogni caso, conclude Missika, sostenere che i grandi centri sono alla fine della loro funzione storica è prematuro: «La questione oggi è sanitaria: se, a seguito di una seconda ondata, scopriremo che vivere in aree densamente popolate non è possibile senza rischi enormi per la nostra salute, allora certo, spariranno. Ma questa realtà ancora non è tra noi: decretare oggi la fine delle grandi città è una previsione molto azzardata».