La frase non poteva essere più infelice: «Se la bicicletta si ferma, cade». Perché infelice? Perché può darsi che lunedì pomeriggio la sua bicicletta si sarà fermata e dunque sarà caduta: Nicola Zingaretti non voleva ma freudianamente ha parlato di sé. La bicicletta dem, come si sa, può fermarsi proprio in quella Toscana da sempre terra ideale per i ciclisti e dal 1946 in mano alla sinistra senza interruzione alcuna.
Ma sulle strade piatte lungo Il Tirreno, sulle colline dell’interno, nelle città ricche d’arte, in Garfagnana come in Maremma si staglia un affannoso pedalare, per la prima volta da oltre 70 anni: è l’ultimo incubo della sinistra. Il segretario, come tutto il Pd, si è accorto tardi della trappola toscana. È solo da una decina di giorni che Roma ha cominciato a inviare truppe – si fa per dire – e a rovesciare la sua propaganda in questa regione.
Le altre (con ancora qualche speranzella in Puglia, oltre che la certezza deluchiana in Campania) sono date per perse, la Liguria si sapeva dall’inizio malgrado il giro di valzer con i Cinque Stelle, del Veneto nemmeno a parlarne e forse nelle Marche si poteva scegliere la sindaca di Ancona Valeria Mancinelli ma è andata così.
Già, la bicicletta di Zingaretti non corre come vorrebbe. Lui ci dà dentro coi pedali, cambia il rapporto, sale en danseus – come i francesi descrivono lo stile degli scalatori – e suda, gridando nei comizi il suo alert contro i fascisti (ma chissà se l’argomento fa presa), manda a Firenze, a Pistoia, ad Arezzo, ovunque sia possibile tutti i compagni del Nazareno – il fido Nicola Oddati fa il comandante sul campo – sollecita i ministri a farsi vedere, sa perfettamente insomma che, come rimbalza sulle chat del Pd centrale, «ci giochiamo tutto».
Ogni trovata è ben accetta. Nelle ultime ore l’hashtag #inToscanaunvisivole va forte. Quando si tratta di «alzare le barricate», come si legge sul sito del Pd Immagina.eu, tutto fa brodo. Si spera in una specie di effetto-Sardine senza le Sardine, in uno scatto finale tutto di nervi e di reni, gettandosi sul filo di lana a corpo morto.
Qui è peggio dell’Emilia. Lì c’era un clima diverso. C’era un governatore uscente, Stefano Bonaccini, che ha fatto il diavolo a quattro. Anche Eugenio Giani ha girato tutti i comuni toscani ma non è la stessa cosa: in Emilia resistono ancora un apparato e una base organizzati, certo pallida imitazione del tempo che fu ma insomma c’è ancora molta gente che s’impegna. In Toscana molto molto meno.
E infine la rottura fra Pd e Matteo Renzi qui ha lasciato cicatrici più profonde, e i lividi ancora si vedono sul corpo macilento della sinistra. Anche per l’ex presidente del Consiglio è una prova difficilissima, se Italia Viva andasse male nella sua Regione, come andrà altrove? Ne vale la pena?
Può benissimo darsi che la drammatizzazione che il Nazareno sta facendo funzioni, determinando quel clima da “ultima di campionato” in grado di raschiare il fondo del barile di quell’elettorato che non vuole consegnare la Toscana (e tramite questa, forse, l’Italia) a Matteo Salvini, ma si tratta indubbiamente di una campagna che ha un retrogusto disperato, come la folle corsa in macchina di Gioventù bruciata dove alla fine James Dean riesce a frenare prima del rivale che invece finisce nel burrone. Scampare il pericolo equivale a vincere: non funziona nella logica ma nella narrazione politica sì.
Nicola Zingaretti vive dunque il suo momento più difficile, e per di più inaspettatamente, cosa che fa ancora più male. «Col 3 a 3 è in sella, col 4 a 2 è problematica, col 5 a 1 è morto», dicono dalle parti del Nazareno. Tutto dipende da Eugenio Giani. Se vince, il segretario del Pd racconterà di aver evitato ancora una volta la presa del potere da parte dei leghisti, un dato che oscurerà le varie sconfitte qua e là.
Se si rivelerà una narrazione convincente lo vedremo presto ma è probabile che funzioni almeno nella misura in cui servirà a evitare un processo sommario magari via Twitter o in diretta tv. Zingaretti potrebbe riuscire a passare per il “piccolo padre” che ha salvato il Partito.
Se invece Giani dovesse perdere tutto diventerebbe possibile. Forse ci sarebbe comunque una istintiva reazione da parte del gruppo dirigente a difesa del segretario per la buona ragione che, non essendoci una vera minoranza, nessuno potrebbe chiamarsi fuori dalle responsabilità di una disfatta. Ma di certo si aprirebbe quel “dibattito” che in gergo significa l’apertura di una Norimberga al rallentatore, l’inizio di un percorso che porterebbe al Congresso nei prossimi mesi in cui potrebbero scendere in campo Bonaccini o qualcun’altro.
Ma l’incognita è il cervello di Zingaretti. La sua forza d’animo. Resistere o togliersi di mezzo magari andando al governo? Nessuno, forse nemmeno lui è in grado di prevederlo. Certo, vedere il grande sconfitto diventare vicepresidente del Consiglio sarebbe una novità assoluta ma la fantasia italiana non ha limiti soprattutto in politica.
Al Nazareno reggerebbe la baracca Andrea Orlando, ammaccato anch’egli dalla performance ligure. E a proposito, una débâcle del PD potrebbe mettere in crisi il governo? Tutti lo negano, non vedendosi al memento alternative praticabili. Ma Zingaretti non ha questo in cima ai suoi pensieri. Il tema è un altro se quella sua maledetta bicicletta sta in piedi, oppure se cade. E nella veglia della notte prima degli esami il segretario fa gli scongiuri.