Ma se dovesse finire, come è probabile che finisca, cinque a uno per Matteo Salvini, cioè cinque regioni conquistate dalla Lega e una sola, la Campania, dal centrosinistra, anzi più che dal centrosinistra da Vincenzo De Luca, il politico dai modi che ricordano più Gengis Khan che Barack Obama, qualcuno tra i dirigenti del Partito democratico e i loro intellettuali di riferimento avrà un sussulto di umiltà da ammettere che questa storia di Conte e dell’alleanza strategica è una boiata pazzesca? O continueranno a perseverare, incuranti dell’antica saggezza popolare che fa dire ai siciliani che «la fissazione è peggio della malattia»?
Se il Pd perdesse la Toscana e la Puglia e i Cinquestelle non se li filasse più nessuno, come è probabile che accada nelle regioni dove si vota domenica, che ne sarà del governo Conte che in questi mesi è stato raccontato a ciglio umido come un argine democratico al salvinismo ma che invece ne è l’acceleratore?
Il governo del Pd con i Cinquestelle, quando è nato, aveva un senso politico e civile molto preciso: fermare la presa dei pieni poteri di Salvini, evitare l’uscita dall’Europa e rimettere l’Italia sui binari corretti dell’Occidente libero e democratico.
Salvini è stato estromesso, almeno per ora, ci siamo aggrappati all’Europa, abbiamo mandato Gentiloni a Bruxelles anziché un analfabeta del Dio Po, e tutto sommato abbiamo retto la botta, anche se non conosciamo ancora il bilancio finale della pandemia sull’economia.
Non sono risultati da poco, me ne rendo conto, ma allo stesso tempo c’è poco altro di cui essere fieri perché mandare Salvini a casa e restare nella casa europea avrebbe dovuto essere la semplice base di partenza su cui costruire una nuova idea di Italia, diversa da quella sovranista e demagogica di Conte, Salvini e Di Maio, come del resto un tempo sosteneva anche Zingaretti.
Il segretario del Pd era salito al Colle ponendo tre semplici condizioni per far partire il governo Cinquestelle-Pd: no al bis di Conte, abolizione dei decreti sicurezza e no al taglio dei parlamentari. Non ne ha ottenuta nemmeno una, anzi Conte è diventato il fortissimo punto di riferimento di tutti i progressisti, o almeno di quelli di stanza al Nazareno, non è cambiato di una virgola il corso mozzorecchi e assistenzialista intrapreso da Di Maio e Salvini, anzi si è raggirato perché sono state mantenute le misure del Conte 1 come quota cento, decreti sicurezza, reddito di nullafacenza e sono state completate le leggi orrende sulle intercettazioni, sulla prescrizione fino al gran finale di questi giorni della mutilazione del Parlamento in ossequio al primario sentimento anti politico che, in teoria, il Pd avrebbe dovuto fermare.
Tutto questo mentre i Pd & The Reformists continuano a suonare un blues fuori sincrono ricco di “correttivi” e di “processi di riforme più ampie” al modo ostinato dell’orchestrina del Titanic nel pieno del naufragio.
La colpa del Pd è quella di aver rinunciato a fare quello che Salvini aveva fatto l’anno precedente col governo Conte 1, ovvero considerare Conte per quello che è, un segnaposto ininfluente, ed esercitare un’egemonia politica sui Cinquestelle imponendo la propria agenda di governo.
Italia Viva di Matteo Renzi ci aveva provato all’inizio del Conte 2, con il piano famiglia e il piano shock e alcune iniziative sulle tasse, ma il Pd è riuscito con successo a tamponare la spinta riformista di Renzi, non premiata peraltro dai sondaggi, e considerata dai dirigenti del Nazareno come una minaccia pari se non maggiore a quella di Salvini.
E così il Pd anziché imporre ai babbei a cinque stelle progetti e idee liberal e progressiste ha preferito blandirli, evitando qualsiasi contrapposizione considerata pericolosa ai fini della grande alleanza strategica che non è mai partita. L’egemonia culturale è stata esercitata dai Cinquestelle sul Partito democratico, Di Maio non ha mai ceduto un millimetro, salvo dimenticarsi di Bibbiano in cambio del ritiro delle querele, una delle pagine più sconcertanti della recente politica italiana, ha mantenuto tutte le sue bandiere, ha concesso l’alleanza solo nelle regioni dove era sicuro che fallisse e adesso è l’unico esponente della maggioranza di governo che lunedì potrà dire di aver vinto, grazie al contributo decisivo dei suoi volenterosi e un po’ fessi complici nazarenici.
Di Maio gliene ha date tante, è vero, ma il Pd quante gliene ha dette, uh quante gliene ha dette. E da lunedì vedrete anche quanti “correttivi” alla Costituzione, alla legge elettorale, ai decreti sicurezza, alla spazzacorrotti, al filoputinismo e al filo trumpismo riusciranno a imporre a Conte e compagnia.