Che Trump abbia mentito è la classica notizia cane-morde-uomo. Donald Trump non dice mai la verità, non ne è capace e non prova nemmeno più a nascondersi. Nessuno quindi si può essere meravigliato a leggere le rivelazioni del nuovo libro di Bob Woodward secondo cui il presidente sapeva perfettamente che il coronavirus era letale e che quindi ha consapevolmente ingannato gli americani, centonovantamila dei quali sono morti, centononvantamila veri, non come i numeri sparati a caso dall’amico Giuseppe Conte.
A colpire non è nemmeno che la fonte del giornalista del Watergate sia proprio lui, Trump medesimo, perché conosciamo bene il suo narcisismo infantile e anche l’incapacità cronica di accettare che quelli che contano e che lui vorrebbe conquistare in realtà lo detestano.
La cosa che invece ancora oggi stupisce, nonostante quattro anni di fandonie trumpiane, è l’elevazione della menzogna a sistema standard di comunicazione politica anche nei sistemi democratici. Le bugie ovviamente sono sempre state un elemento fisiologico della propaganda, ma qui sono saltati tutti i parametri e tutte le protezioni e siamo a un livello di sofisticazione da asilo nido, non a caso sono i grillini ad eccellere nell’arte di dire scemenze.
Sulla copertina dell’Economist di quattro anni fa è comparso per la prima volta il concetto della post verità per spiegare che la politica aveva cominciato a non tenere più conto dei dati di fatto. Poco dopo siamo stati invasi dalle fake news, le notizie false diffuse ad arte, in particolare nelle bolle dei social network, per influenzare l’opinione dei target politici di riferimento. Post verità e notizie false, a volte diffuse da agenti stranieri con l’obiettivo di alimentare il caos e di indebolire la società aperta a volte di origine indigena, hanno fiaccato il dibattito pubblico occidentale, già traballante di suo per lo sfaldamento dei corpi intermedi della società – dai partiti ai sindacati, dai giornali alla famiglia – abbattuti in nome del progresso, della disintermediazione digitale e dell’illusione dell’uno-vale-uno e della democrazia diretta.
In quattro anni, il declino di quella che un tempo si chiamava opinione pubblica è stato repentino: dalla post verità e dalle fake news si è passati a rinominare le bugie belle e buone «alternative facts», fatti alternativi, e di fronte alla verità che le smentiva è stato argomentato che «la verità non è la verità», fino a codificare nella prassi quotidiana il diritto inalienabile del cittadino di poter manipolare altri concittadini diffondendo informazioni false.
Questo è successo in quattro anni: post verità, fake news, fatti alternativi, verità non vera, diritto costituzionale a raccontare balle hanno assuefatto la società occidentale e oggi consentono a Trump di giocare serenamente con la salute di milioni di americani senza pagare pegno, di confessare on the record le sue menzogne al più noto giornalista investigativo del pianeta e di negare contestualmente di aver mai detto le cose che gli vengono imputate e che si possono chiaramente ascoltare sui file audio della sua intervista a Woodward.
Non è solo un’anomalia americana e purtroppo non andrà via automaticamente con la sconfitta a novembre di Trump, sebbene ogni ipotesi di riscossa del mondo liberale passi necessariamente dalla cacciata del Cialtrone in chief dalla Casa Bianca. Anche in Italia i leader politici possono dire qualsiasi cosa e fare esattamente il contrario senza che la loro credibilità venga scalfita, basti ascoltare Salvini o Di Maio oppure osservare Conte che fa il governo con Salvini e poi quello con il Pd, o Zingaretti che giura che mai governerà con i Cinquestelle salvo poi diventare l’alfiere dell’alleanza strategica con i grillini, per non parlare dei tonitruanti proclami sui decreti di sicurezza che però sono ancora lì o dei tre No al pericoloso taglio dei parlamentari improvvisamente diventato Sì dinamico, qualunque cosa voglia dire.
Di nuovo, la politica era l’arte della mistificazione e del trasformismo anche prima dell’era Trump e dei suoi seguaci di qua dell’Atlantico, ma non si è mai spinta come adesso fino ad assistere alle giravolte di un premier sedicente populista e sovranista come Conte che, non cambiando una virgola del suo programma di governo precedente, improvvisamente si spaccia per tecnocrate europeista tra gli applausi dei militanti delle feste dell’Unità.
In America ci sono Woodward, la Cnn, il New York Times, il Washington Post, perfino professionisti seri dentro i quartier generali del trumpismo come FoxNews, a vigilare affinché la democrazia non muoia avvolta dalle tenebre trumpiane.
In Italia invece prevale la sottomissione sotto forma di interviste soffietto al premier così oscene da meritarsi una categoria a parte su YouPorn. E, poi, di ordini diramati via whatsapp ai giornalisti, più le imposizioni rigide degli ospiti nei talk show in modo che nessuno osi dire a voce alta, come ha fatto il vecchio Woodward in America, che Conte sapeva perfettamente del rischio Covid anche se ha disatteso alcune indicazioni del comitato tecnico-scientifico, che non era vero che l’Italia fosse prontissima ad affrontare il virus come aveva assicurato il premier in diretta televisiva e che l’idea che non ci siano differenze tra Trump o Biden è la prova che la narrazione di Conte quale «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» sia la più grande turlupinatura politica degli ultimi tempi.