A un certo punto del suo nuovo romanzo, Quel tipo di donna (HarperCollins, 112 pp.), Valeria Parrella, una delle principali scrittrici italiane e anche delle più impegnate, dice di uno dei suoi personaggi “la vita le pareva una promessa possibile”. Quando le chiedo se è qualcosa che vale per tutti, ancora oggi, nonostante la crisi climatica e la pandemia, mi risponde che deve valere ancora, almeno per chi ha la fortuna di nascere in questa parte di mondo, altrimenti che senso avrebbe tutto. Quel tipo di donna racconta il viaggio di quattro amiche attraverso la Turchia, un paese molto diverso da quello che ci viene restituito dalle pagine di esteri che capita di leggere sui quotidiani. Il libro – che verrà presentato a Insieme a Roma il 3 ottobre – racconta la storia di un’amicizia, o meglio, di una sorellanza: quattro amiche che si conoscono da sempre, che hanno condiviso talmente tanto quasi da confondersi l’una nell’altra. Ne parliamo una mattina, mentre ho mio figlio piccolo in casa che disturba la conversazione con le sue fanfole, quindi la conversazione non può che partire dalla scuola.
«Pensa che i nostri, a Napoli, non hanno proprio cominciato – dice Valeria Parrella – La scuola di mio figlio era seggio elettorale, quindi sapevamo già che avremmo cominciato il 28».
Che non cominciasse proprio per molti era un sogno.
Il sogno dei genitori no, degli alunni nemmeno, forse dei politici?
Esattamente.
Credo che se a un paese dici “stiamo tutti a casa”, allora uno si organizza, resta a casa e fa la didattica a distanza. Per motivi sanitari si può fare, una volta ogni cento può succedere. Perfino due volte, come in Israele. Ma nel momento in cui tieni aperti i negozi, a maggior ragione devi tenere aperta la scuola.
Hanno paura?
Può darsi che abbiano paura. Ma perché in Germania la riapertura delle scuole sta funzionando? Perché appena un ragazzino ha tre linee di febbre – e lo sappiamo benissimo, succede spesso, per le ragioni più disparate – fanno il tampone immediatamente e in due ore liberano il bambino e la classe. Qui non succede. Non sia mai che un bambino ha la febbre! Restano bloccati tutti: il bambino, i compagni di classe, gli insegnanti, pure qualche mamma più prudente.
E i genitori.
Non ti puoi più muovere perché se ho mio figlio in attesa del risultato di un tampone o, addirittura, mio figlio sta benissimo, ma ha un compagno col coronavirus, io stessa non posso più prendere un aereo perché non posso più firmare l’autocertificazione. Quindi se sei una persona che tiene alla legalità e non vuoi firmare una dichiarazione falsa non puoi più andare da nessuna parte
Le mamme a casa coi bambini e i papà al lavoro. Il sogno del patriarcato.
Penso che questo si sia verificato, ma non che sia stato pensato appositamente. Mi ricordo che, dopo il 18 maggio, quando è stato possibile uscire di nuovo, noi abbiamo ricominciato a uscire e mio figlio è rimasto davanti allo schermo con la didattica a distanza, che nel suo caso ha funzionato benissimo. Però era possibile perché un ragazzino di 13 anni può restare a casa da solo. Ma chi ha un bambino che va alle elementari non può lasciarlo da solo. E in quei casi è stato proprio statistico che, potendo uscire solo un genitore, usciva di casa il maschio.
Era immaginabile.
Secondo me il problema degli italiani non è tanto il maschilismo che esiste ed è gretto e orrendo, ma esiste in fasce di popolazione deprivate socialmente e culturalmente. Gli italiani per la maggior parte sono insegnanti, dipendenti statali, piccoli commercianti. Non sono tutti industriali. Ci sono fasce di povertà e disoccupazione, certo, ma il 60% degli italiani è fatto di media borghesia. Questa ampia fascia di popolazione non è maschilista: sono uomini che hanno imparato a dividere le incombenze quotidiane con le donne. Anche ragazzi giovani, li vedi vestiti con abiti da cui capisci che l’estrazione sociale non è elevata, e però cambiano i pannolini e danno il latte nel biberon sulle panchine. Gli uomini non sono più maschilisti, tranne pochi casi. Il problema è il patriarcato perché il patriarcato a differenza del maschilismo è molto più interiorizzato. Tocca tutti: i dirigenti d’azienda, i direttori dei giornali e delle televisioni, i presidi. Il patriarcato è quel modo di ragionare interiorizzato per cui le donne non raggiungeranno mai l’apice della piramide o, comunque, non è naturale che lo facciano. Ed è più pericoloso del maschilismo.
E più nascosto.
Oltretutto il maschilismo è più facile da additare, non vedi un uomo che schiaffeggia una donna pubblicamente come poteva capitare negli anni ’70. Invece Sallusti che chiama De Gregorio per nome e tutti gli altri colleghi per cognome sì.
Negli Stati Uniti è stato Trump a spingere per la riapertura delle scuole, mentre i democratici erano più prudenti.
Preferisco parlare dell’Italia. Qui sia destra che sinistra hanno capito di essere molto in colpa rispetto alla scuola. Nel senso che la scuola è stata distrutta e presa a randellate da politiche criminali sia di destra che di sinistra: il reclutamento schizofrenico degli insegnamenti, l’impoverimento delle mense, l’autonomia per cui sono diventate delle piccole aziende e quindi i presidi, adesso, sono dirigenti e ognuno fa la pubblicità per il suo liceo.
Dicono di aver investito molto.
Il banco monoposto è una stronzata – non ce la faccio a usare un’altra parola – per cercare di distogliere l’attenzione dalle problematiche più importanti.
Dicevi che la didattica a distanza da te ha funzionato bene.
Benissimo. Ma a un compagno di classe abbiamo dovuto comprare noi il computer: non aveva né quello né una connessione. Per fortuna ha avuto il coraggio di dirlo alla comunità. E così la scuola ha dato una sim e noi avevamo un computer e gliel’abbiamo dato.
Ci sono state molte situazioni analoghe nel paese.
Non doveva essercene bisogno. Se c’è una persona che cade mi viene naturale aiutarla però la buca non dovrebbe esserci.
Per una volta la scuola è sembrata davvero interessare a tutti.
C’è stata una grande pressione perché l’Italia trova nella scuola una dei suoi pilastri democratici. È una cosa che abbiamo dentro e che sentiamo, anche se non abbiamo figli, non siamo insegnanti e il diploma l’abbiamo preso da una vita. Lo sentiamo perché è la cosa più universale e obbligatoria che abbiamo. Anche il voto è universale, ma non è obbligatorio.
A proposito di voto, le elezioni non ti hanno appassionato.
No. Io voglio molto bene alle 21 madri costituenti, adesso ci sarà il ricordo delle quattro giornate di Napoli e andrò all’Anpi a parlare di Teresa Mattei che è la mia madre costituente. Quindi prima di fare un referendum costituzionale ci avrei pensato di più. Ho votato No, ma avrei preferito che non si facesse proprio. Ho votato controvoglia.
E alla regione?
Alla regione ho votato Potere al Popolo sapendo che non ci sarebbero state grandi speranze. In Campania siamo sempre costretti a scegliere tra il meno peggio quello che sembra un po’ più capuzziello e quello che ha solo un atteggiamento capuzziello, ma è una persona perbene. È sempre una scelta di questo tipo. Quindi ho cercato una terza via, come sempre. Sostanzialmente sono della sinistra extraparlamentare quindi non esiste una rappresentanza di quello che penso io, in Parlamento, da quindici anni.
Hai citato indirettamente De Luca. La sua gestione del coronavirus si è rivelata finora molto efficace: è un caso o un merito?
Tocco tutto il ferro che c’è attorno, fino alla moka. Perché non mi pare che adesso vada ancora tutto così bene. Poi, secondo me, De Luca ha capito una cosa: era molto rischioso far diffondere l’epidemia in Campania perché abbiamo una densità di abitanti per mq superiore a ogni altra regione. La fascia costiera che va da Pozzuoli a Salerno fa 5 milioni di abitanti. È come quando erutterà il Vesuvio
Dobbiamo toccare ferro di nuovo?
È inutile perché erutterà di sicuro. Bisogna organizzarsi per gestire l’emergenza quando sarà. Ovviamente i suoi toni sono sbagliati, ma che ti devo dire… si vede che lui conosce bene il suo elettorato e sa che a una parte di persone o parli così o non ti sta a sentire. Mi dispiace perché a me fa schifo quel modo di esprimersi però evidentemente…
Ha funzionato.
E comunque più di De Luca poté la paura. Io vedo sempre le scorribande di camorra qui sotto casa mia – dico camorra, ma non ti parlo di camorra vera, armata, parlo di tracotanza, di piccole bande, di guapparia, nulla che c’entri con lo spaccio, un modus vivendi più da gomorra televisiva che reale. Però queste bande, per mesi, non sono uscite di casa. La prima sera che sentii, di nuovo, il chiacchiericcio dei ragazzi sui motorini parcheggiati mi sono commossa. Mio marito mi ha domandato: «Ma non li odiavi?». E io «sì, ma adesso gli voglio bene». Però quest’episodio ti dice che anche loro sono stati coi balconi chiusi a chattare con gli amici. La paura di morire è il detonatore più grande cha abbiamo.
Racconti Napoli e ripenso all’Istanbul del tuo libro.
Per me esistono delle città mondo e Napoli è una città mondo, come Istanbul o Calcutta. Milano non lo è. È una città bellissima, ma è prevedibile. Il mondo invece è imprevedibile. È quello lo scarto che senti tra come le immagini, tra come cerchi di figurartele e come poi, a volte, ti viene restituita da una persona che ci vive o da un libro. Ovviamente l’imprevedibilità si può verificare solo dove gli elementi che la compongono sono disomogenei. Napoli è fatta così: trovi l’astrofisico e il troglodita che bevono un bicchiere di vino nella stessa enoteca. Non ci sono i quartieri così e quelli colì. Si sta tutti insieme.
Roma?
Anche a Roma ci sono dei quartieri border, ma sono finti. Il Pigneto, per esempio, è fricchettone, ma non c’è gente che muore di fame. Vedi l’ubriaco disteso a terra, ma non la signora anziana che va a vivere nel dormitorio pubblico. Una scena del genere potresti vederla a Spinaceto, ma perché dovresti andare a Spinaceto? E quindi non la vedi. Invece Napoli è così. C’è il centro storico più popoloso d’Europa e la gente vive ancora nei bassi. I bassi non sono unità immobiliari abitative, sono accatastati come laboratori o garage, ma c’è gente che ci vive dentro. Ovviamente gente poverissima che lava tutto di continuo con la candeggina. Eppure nello stesso palazzo trovi il superattico al sesto piano con la terrazza che guarda il Vesuvio e il gallerista che fa la festa. È tutto assieme.
Ti preoccupa quanto sta facendo Erdogan con i musei riconvertiti in moschee?
Mi spaventa perché sono atea e illuminista. Mi spaventa come fosse l’inquisizione, non è una cosa contro l’Islam.
E se li riconvertisse in chiese?
Sarebbe stato lo stesso. Mi spaventa che degli esseri umani, nel 2020, ancora parlino a nome di un dio monoteista trascendente. Non ce la posso fare.
Il tuo libro parla di sorellanza: qual è lo specifico della sorellanza rispetto all’amicizia?
Prima cosa è di genere: posso avere un amico maschio, ma non posso avere sorellanza con lui. Poi c’è soprattutto l’assenza di giudizio. Tra amiche ci si può giudicare, ma tra sorelle ci si dà per scontate. È una cosa più stretta, è come quando nasci nella stessa famiglia. Puoi schifare tua sorella, puoi incazzarti con lei, può farti rabbia che abbia fatto una scelta invece che un’altra, ma sarai sempre dalla sua parte. Il giudizio che puoi dare non determina la perdita, non puoi lasciare una sorella e così non puoi lasciare un’amica in sorellanza.
Scrivi anche che ognuna ha partecipato alle vite delle altre fino a condividerle.
E poi c’è il tempo. Ho una sorellanza con compagne di liceo che ho conosciuto nel 1987. Con loro ho vissuto le morti, perché ognuna, purtroppo, ha avuto un lutto, ho vissuto i matrimoni perché per fortuna, o purtroppo anche qui, tutte noi li abbiamo avuti. Abbiamo conosciuto le nascite dei figli, le paure, i lavori che andavano e tornavano. Ma come fai a chiamarla amicizia questa cosa? È un’altra cosa.
È un libro che si inserisce nel dibattito di questi anni. L’ispirazione lo precede?
Ho scritto un libro su temi simili, anni fa, da cui deriva l’epigrafe in apertura di questo. Nel 2016 non si parlava ancora tanto di femminismo perché non c’era ancora stato il Metoo che è stato il motivo per cui siamo tornati a parlare di femminismo. C’era stato un “Se non ora, quando?” contro Berlusconi, ma non c’era ancora “Non una di meno” o altre reti che ci sono adesso. Questo libro si chiamava Enciclopedia delle donne. Aggiornamento ed era la storia di una che scopava solo e raccontava le sue scopate. Fui chiamata a parlarne alla Libreria delle donne, a Milano, perché si erano incazzate le femministe storiche. Dicevano che non si doveva parlare così delle donne, perché la sessualità femminile non era come la raccontavo io. Mi venne a difendere – perché secondo lei valeva la pena farlo – Luisa Muraro, e disse «secondo me è importante parlare di fica. In qualunque modo lo si faccia. Quindi vengo io a fare l’arringa di difesa». Il fatto stesso che lei dicesse che era importante parlarne significa che allora se ne parlava poco. Quindi ti dico che questi sono sempre stati i temi miei.