Ora, per capire, bisognerebbe immergersi in un’acqua scura dove riuscire a dare un nome preciso alle cose è impresa impossibile. Ricostruire nei dettagli quel che è successo negli anni Settanta è un’illusione.
Quanta gente che è ancora viva potrebbe parlare, quanta gente sa, ha visto, sentito, vissuto. Oggi hanno i capelli bianchi, figli di 40 o 50 anni, e nipoti.
Ogni volta che torno a frequentare quel tempo faccio due conti e scopro che sono dei nonni, scopro che alcuni se ne sono andati, altri sono malati. Dentro di loro c’è ancora, forse lontano o magari vicinissimo e presente, quel ragazzo che sognava la rivoluzione, quello che aveva preso il gusto della violenza, quello che ha fatto cose di cui non ha voluto mai vergognarsi oppure che ha rimosso per non farci i conti.
Nessuno parla, se non quelli che lo fanno per professione, che hanno una loro tesi e una loro agenda da mezzo secolo e appena possono si affacciano sulla scena per gridare la loro verità, che troppo spesso è inquinata e serve a sentirsi ancora vivi e ancora nel giusto.
Carole Beebe si sveglia spesso la notte e si chiede come sia possibile che nessuno abbia mai fatto il nome di uno dei due killer brigatisti che spararono a suo marito, l’economista Ezio Tarantelli, il 27 marzo 1985 all’Università La Sapienza. Eppure non si trattava di cani sciolti, tanti sanno, hanno procurato le armi, i covi, fatto da pali e vedette, pedinato, discusso, preparato volantini e rivendicazioni… eppure nessuno in trentacinque anni ha detto una parola.
Difendono le loro vite, che sono molto più lunghe e complesse di quel tempo. Per un decennio di militanza, magari solo per uno spicchio di quello, ne sono seguiti quattro di un’altra vita, lavori, famiglie, carriere. Vacanze, nuovi amici, colleghi e soprattutto figli, che difficilmente capirebbero.
Così stanno in silenzio o parlano tra loro. Spesso a tenerli fermi, a spingerli al silenzio, è un senso di amicizia, di appartenenza, l’idea che parlare significherebbe tradire gli amici antichi e soprattutto i propri 20 anni.
Faccio gli stessi pensieri con i depistaggi di Stato, le complicità con le bombe e le stragi, le verità nascoste e indicibili che funzionari infedeli, uomini con un’idea malata delle istituzioni, si sono portati nella tomba.
Dobbiamo arrenderci a non avere verità? No. La verità storica sulle stragi e sul terrorismo è acquisita, chiara. Conosciamo matrici, mandanti, organizzazioni, esiste la mappa precisa delle responsabilità del terrorismo di sinistra e di destra e delle stragi.
Quella storia è come un mosaico antico: per leggere le figure, i colori, le linee bisogna allontanarsi e tenersi a distanza. Così se ne coglie l’insieme, la visione è completa. Se invece ci si avvicina si vedono i buchi, le tesserine mancanti, quelle sbreccate o scolorite e si ha la sensazione che il mosaico non esista più, sia solo un caos senza senso. Ma basta fare due passi indietro e l’immagine torna a parlarci e a raccontare la sua storia.
Quando mi sono messo a leggere gli atti del processo di Carlo ho provato una vertigine, un senso di nausea e di smarrimento.
Una notte ho letto un libro, di cui non condivido titolo e tesi di fondo, ma che dal punto di vista della cronaca di quel tempo è un gran lavoro, ricostruisce il rapimento di Carlo e i processi, lo ha scritto Antonella Beccaria e si intitola “Pentiti di niente”.
Mi è servito a capire una volta di più come ricostruire ogni responsabilità e l’esatta genesi di atti terroristici sia impossibile, e mi è servito a capire che cosa non volevo fare.
Volevo dare una risposta alla domanda di Marta, che desidera sapere chi fosse suo padre. Non dare un nome a ogni persona che tramò per rapirlo, che fu complice o più semplicemente lasciò fare.
Ho avuto chiaro una volta in più che entrare e cercare di spiegare un tempo caotico e indefinibile è un’illusione pericolosa. Ci si perdono gli occhi, il sonno e la direzione.
Ho cercato testimonianze dirette in quel mondo, incontrando silenzi gelidi e imbarazzati, allora mi sono procurato tutti gli atti ufficiali possibili: processi, indagini, documenti di polizia, atti d’inchiesta parlamentari, e ho messo in fila ciò che mi sembrava utile e illuminante.
Poi ho deciso di cancellare da queste pagine tutti i nomi che non fossero fondamentali per capire la storia di Carlo Saronio. La giustizia, per quanto imperfetta, ha provato ad attribuire responsabilità e pene, ora, quarantacinque anni dopo, restano uomini e donne, spesso alla deriva, che non ha più senso strappare dal loro oblio.
da “Quello che non ti dicono”, di Mario Calabresi, Mondadori, 2020