E alla fine venne il gelo (diplomatico). Dopo mesi di attriti, nel mezzo dell’autunno, quello psicodramma che va sotto il nome di Brexit sembra ai titoli di coda. Mentre l’Occidente è travolto dalla seconda ondata della pandemia, il lieto fine nelle trattative fra Regno Unito e Unione europea sembra compromesso irreparabilmente. Stavolta per davvero.
Tempismo discutibile. Le premesse di questo esaurimento nervoso si intravedevano nei bilaterali, mai decollati, per un accordo commerciale che per il Regno Unito sarebbe un’assicurazione sulla vita, con la permanenza nel mercato unico. Però i negoziati si sono incagliati, senza mai progredire rispetto a uno stallo cominciato prima dell’emergenza sanitaria, quando Londra ha abbandonato Bruxelles senza preoccuparsi troppo di cosa sarebbe successo dopo.
Si scrive neoisolazionismo, si legge roulette britannica (i russi sono già troppo impegnati nell’attacco hacker propagandistico contro il vaccino altrui, con i media di Stato del Cremlino impegnati a screditare la ricerca di Oxford per un vaccino al coronavirus). Una risposta del primo ministro Boris Johnson – timoniere ottuso di un Paese solo apparentemente alla deriva – era attesa ed è arrivata in orario.
«A meno che non si verifichi un cambio di approccio sostanziale – la stoccata di Johnson –, procederemo con una soluzione basata sul modello australiano». In pratica un ritorno ai dettami del WTO (Organizzazione mondiale del commercio, ndr), soluzione second-best rispetto a fotocopiare il trattato con il Canada (il CETA ha abolito il 98% dei dazi fra i due blocchi), come avrebbe voluto ottimisticamente Downing Street. È il no-deal, bellezza.
A UK spokesperson spells it out more clearly:
“The trade talks are over. The EU have effectively ended them yesterday when they said they did not want to change their negotiating position”
“The EU can either fundamentally change its position, or we leave on Australian terms”— Dave Keating (@DaveKeating) October 16, 2020
Scatterà il primo gennaio 2021, stravolgendo la vita dei cittadini su entrambe le sponde della Manica, dal roaming al traffico aereo. A stretto giro, la Commissione europea ha replicato: «L’Unione europea continua a lavorare per un patto, ma non a qualsiasi costo». Lo ha detto la presidente Ursula von der Leyen, aggiungendo che gli sherpa di Bruxelles la settimana prossima voleranno lo stesso a Londra per i colloqui.
Potranno risparmiarsi la visita, ha tagliato corto Downing Street. Un portavoce del governo britannico ha detto che i negoziati sono finiti, circoscrivendo – non a caso – il requiem al capitolo commerciale, perché il comitato congiunto sull’Irlanda del Nord sopravvivrà al no-deal mercantile, anche per non indisporre un convitato di pietra della stazza degli Stati Uniti.
Il governo di Dublino ha già chiarito che si aspetta rispetto reciproco nelle relazioni diplomatiche. «Nei giorni scorsi abbiamo visto la luce, ma anche le ombre – ha ammonito invece Angela Merkel –. Abbiamo chiesto al Regno Unito di restare aperto a un compromesso, ma questo significa che dovremo accettare dei compromessi anche noi».
Se la cancelliera si è rammaricata, è stato più prosaico il presidente francese Emmanuel Macron. La spaccatura riflette due filosofie: Berlino ha dimostrato clemenza verso l’isola ribelle, Parigi non ha mai perdonato il tradimento del 2016. «Un accordo serve più a Londra che a noi», ha scandito l’Eliseo, invocando la piena applicazione del Withdrawal Agreement.
"It just so happens that making the British prime minister happy isn't the vocation of sovereign leaders of the 27 member states that chose to remain in the EU."
– @EmmanuelMacron, French President pic.twitter.com/c3YA1E3eq5
— DW Europe (@dw_europe) October 16, 2020
«Rendere felice il primo ministro inglese non è la vocazione dei leader dei 27 Stati membri che hanno deciso di restare nell’Ue». Una blastata da trascrivere negli annali della Brexit. Autore: Macron. Dietro l’ironia, di stampo quasi britannico, c’è l’intransigenza sui dossier da casus belli. Su tutti, la pesca. «Non sacrificheremo i nostri pescatori». Testuale. Dopo la farsa, si gioca a battaglia navale.
Le controparti si incontreranno di nuovo, quantomeno per lasciarsi bene, cioè dal vivo. La premier scozzese, Nicola Sturgeon, ha attaccato Londra: «manovra politica imprudente». A settentrione, nelle rivelazioni sono tornati oltre il livello di soglia i sentimenti indipendentisti: il 58% degli scozzesi approverebbe l’autonomia.
Con lo strappo, Johnson mira a forzare una crisi nei negoziati. Per ora, la sterlina ha perso lo 0,3% sull’euro. Anche se Downing Street minaccia la ritirata, l’impalcatura di un concordato era già stata delineata politicamente. Ma rischia di restare lettera morta se non cadrà l’inamovibilità reciproca su una manciata di punti a forte tasso simbolico, come il diritto di pescare nelle acque della Regina. Non c’è tonnellaggio di merluzzo che giustifichi il sacrificio di mezzo secolo di storia insieme.
Eppure, siamo proprio a questo punto. Un’escalation che sta lasciando sul terreno fin troppa popolazione civile. C’è tempo sino a fine anno per firmare una tregua. Ma se gli stracci che volano segnassero la presa di coscienza che il proverbiale «punto di non ritorno» è già stato raggiunto?