Poco informati ma con meno pregiudizi di chi deve prendere le decisioni. È questa la fotografia che emerge dal recente sondaggio di Swg per BeLeaf Magazine e PQE Group sulla percezione dei cittadini verso le cannabis terapeutica. Un tema che in un Paese come l’Italia non dovrebbe essere un tabù e che invece, di fatto, ancora lo è.
Perché, a fronte di una legislazione tra le più avanzate d’Europa, persistono una serie di resistenze che contribuiscono ad alimentare un continuo paradosso. È paradossale che vi siano delle lacune informative, formative e culturali tremende ed è paradossale che vi sia un clamoroso gap a livello di produzione e diffusione dei farmaci a base di cannabinoidi.
Secondo l’indagine di Swg, però, dove non arriva l’informazione arriva il buon senso dei cittadini. Prima di entrare nel dettaglio dei risultati, però, vanno fatte alcune doverose premesse. La prima è che, secondo quanto stabilito dalla legge italiana, tutti i medici possono prescrivere cannabis terapeutica per tutte quelle patologie di cui esistono prove scientifiche sul suo utilizzo. Sono veramente molte le patologie che traggono beneficio dall’utilizzo della cannabis.
Qualche esempio: il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale, nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV. Ma anche fibromialgia, epilessia, insonnia, patologie autoimmuni come Parkinson e Alzheimer etc.
Si arriva alla cannabis terapeutica, però, soltanto quando il percorso farmaceutico “tradizionale” non ha giovato il paziente o quando gli effetti collaterali sono insopportabile per una qualità di vita dignitosa. Pochi medici la prescrivono, poche farmacie la trattano.
La seconda premessa è che, a fronte un utilizzo comunque limitato dalla mancanza di formazione e di informazione, il fabbisogno dei pazienti non è minimamente soddisfatto. Il motivo? Molto semplice, in Italia l’unico ente preposto alla produzione di cannabis a scopo medico è l’istituto chimico farmaceutico militare di Firenze e non ha alcuna intenzione di aumentarla. Il resto viene importato, a prezzi sensibilmente più alti, dall’estero: Olanda, Israele, Canada. Solo per citare alcuni nomi.
La terza premessa è che, nonostante questa situazione di richiesta non soddisfatta dall’offerta, l’autocoltivazione di cannabis per uso personale è ancora perseguita dalla legge italiana, nonostante alcune recenti sentenze abbiano lasciato trapelare un relativo ottimismo da questo punto di vista. Ottimismo che, però, non viene confortato dal punto di vista legislativo.
I risultati del sondaggio, alla luce anche di queste considerazioni, sono in parte scontati e in parte sorprendenti. Le risposte al primo quesito confermano infatti che esiste una enorme lacuna dal punto di vista informativo. Solo il 29% degli italiani si dice consapevole di quella che è la situazione. Il restante 71% si dice solo vagamente informato o per nulla informato.
La reazione al secondo quesito è quella più interessante. Alla domanda sulla possibilità di allargamento della produzione, che possa consentire anche ad enti locali e aziende private di coltivare e distribuire cannabis terapeutica, i cittadini hanno risposto in maniera praticamente plebiscitaria. Quasi quattro su cinque (il 78%) è d’accordo con l’allargamento. In questo caso il ragionamento è di puro buon senso: se somministrare cannabis per curarsi è legale, perché l’Italia non può prodursela da sola, invece che importarla arricchendo le economie altrui? Un assunto tanto semplice, quanto ancora purtroppo inascoltato.
Infine il terzo quesito, quello riguardante l’autocoltivazione. In questo caso il risultato è polarizzante. Il 49% degli italiani si dice sostanzialmente d’accordo con la possibilità che chi necessita di cannabis se la possa coltivare in casa, in maniera regolamentata, per uso personale. Il 51% invece è tendenzialmente contrario. Con un margine di errore del sondaggio del 3,4%, si può dire che su questo punto la popolazione italiana sia divisa praticamente a metà. Il che, specie se rapportato al primo quesito, e quindi alla mancanza di informazione e agli scogli culturali ancora presenti quando si parla di cannabis – per non parlare della forte propaganda proibizionista di certa politica – è comunque un risultato rilevante.