Cucine da incuboSei donna e vuoi fare la chef? Preparati a subire insulti, violenze e abusi sessuali

Oltre ai ritmi di lavoro pesanti, il clima nei grandi ristoranti è improntato al maschilismo. I codici sono quelli della caserma, le offese rappresentano la normalità. E come spiega una inchiesta di Libération una ragazza alle prime armi sarà il bersaglio principale

da Pxfuel

Commenti pesanti, offese, atti di maschilismo. Non solo: avance continue, battute a sfondo sessuale, veri e propri abusi se non violenze. La cucina nei ristoranti è una caserma, con ritmi di lavoro duri e una diffusa cultura cameratesca. A farne le spese sono soprattutto le donne.

Lo racconta l’inchiesta del giornale francese Libération, che ha raccolto numerose testimonianze di cuoche e donne chef che lavorano o hanno lavorato per grandi ristoranti. Un ambiente tossico, dominato da una sub-cultura machista e misogina. «Se lavori nella ristorazione, dovrai di continuo respingere delle avance», spiega Julie Basset, 32 anni, che per sopravvivere ha dovuto diventare chef indipendente. «Insulti, commenti sul fisico, mani che scivolano addosso», ha confermato Laetitia Visse, che dopo alcune esperienze in alcuni locali importanti ne ha aperto un suo a Marsiglia.

«Lo chef capo mi metteva le mani nelle mutande. “Adesso capisci perché c’è un muro che separa la cucina dalla sala?”», aggiunge. Un’altra volta le hanno staccato il reggiseno e la hanno palpata (ma ha reagito e l’uomo è stato condannato) nessuno ha condannato il fatto, nessuno lo ha considerato grave.

Il problema è la tolleranza diffusa degli abusi in cucina: «Le ragazze si fanno toccare, i ragazzi si fanno spaccare la faccia», riassume Emilie Fléchaire, direttrice dell’agenzia di comunicazione Néroli, specializzata nella gastronomia. E l’atteggiamento riflette una mentalità: la violenza, verbale o gerarchica, è considerata una componente ineliminabile nel lavoro della cucina. Chi si stupisce per gli scatti di Gordon Ramsey o la durezza di Antonino Cannavacciuolo sappia che la quella televisiva è una versione edulcorata che avviene davvero.

Nei ristoranti (francesi: Libération è rimasta nei confini nazionali, ma la sensazione è che valga anche altrove) gli chef considerano i primi mesi di lavoro come una sorta di addestramento militare: chi non resiste, viene allontanato, chi regge diventa come loro. È una selezione di cui sono fieri, perché sentono di formare «guerrieri», spiega Laetitia Visse. Ma che spesso si rivela troppo dura: in molti, di fronte al clima ostile, preferiscono lasciare – e questo spiega anche la cronica carenza di personale, nonostante il grande numero di trasmissioni televisive abbia reso popolare il mestiere.

Il lessico è quello: militare. I codici di comportamento ricalcano la caserma, la socializzazione segue il registro della dominazione. L’ambiente è competitivo e non esistono colpi proibiti. «Avevo già un carattere forte: stando in cucina ho creato una corazza. Per non farsi camminare sopra dagli altri bisogna avere una personalità forte», spiega Julia Sedefdjian, una delle più giovani chef stellate di Francia. Anche se, anche qui, non bisogna esagerare: il sistema lavorativo è basato sulla cooptazione, e i superiori «minacciano di rovinare la carriera dei più giovani, di chiudere loro tutte le porte. Se vogliamo meritare il posto che abbiamo dobbiamo chinare la testa» e sopportare tutto, aggiunge la chef Marion Goettlé

Qualcuno ha provato a fare denunce o a rendere pubblico il clima oppressivo delle cucine. L’account Instagram “Je dis non chef”, in cui si raccontavano in forma anonima gli abusi subiti o cui si era stati testimoni, stava smuovendo le acque. Ma l’iniziativa è stata però interrotta dal suicidio, avvenuto lo scorso 28 settembre, dello chef franco-giapponese Taku Sekine, accusato di molestie sessuali.

È stato un freno: le vittime non volevano passare per carnefici. Sono saltate le tavole rotonde, le conferenze sul tema, è calato di nuovo un manto di silenzio. Per Emilie Fléchaire «tutti sanno come vanno le cose in cucina. Nessuno cade dal pero. Quello che manca è una spiegazione pubblica di questi atteggiamenti».

Ma se denunce come quelle di Libération possono aiutare a scardinare un sistema, va anche detto che le nuove generazioni, cresciute in ambienti più tolleranti, mostrano di non voler perpetuare questo modo di rapportarsi in cucina. La stessa Sedefdjiane nel suo locale cerca di «responsabilizzare i giovani, evitare gli insulti e dire sempre “grazie” e “prego” e trasmettere il mestiere e la passione».

Sono casi positivi, fanno ben sperare. Anche se la sensazione è che ci sia ancora molto da fare e molto da dire, in tutte le forme: dalle denunce sui social a quelle, più consistenti, fatte ai tribunali.

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