Chiuso in quattro mura, il cinema di Zagabria guarda le strade dalla finestra. Piove, o forse no. La tensione è un fatto di nuvole ma dalle tende di Vjeko, protagonista di “The Constitution”, sembra sempre rabbuiare. Vive solo di notte, quando a contare i passanti sono i tremolii delle pozzanghere. Nella capitale vuota può essere se stesso, indossare gli abiti della madre e andare a bere un cocktail sotto casa. Ma fuori si rischia sempre e presto dei giovani neofascisti gli ricorderanno perché non può essere felice.
Picchiato, abbandonato in strade austere e indifferenti, viene portato in ospedale. Lo assiste la vicina di casa, infermiera prodiga ma pronta a chiedere un favore in cambio. Suo marito, poliziotto di origine serbe, è dislessico e deve imparare la costituzione croata per un concorso pubblico. Vjeko, professore di storia, può aiutarli. Anche se un vicino serbo non lo avrebbe voluto. Accetta e torniamo dietro le finestre, dove ogni dinamica si esaspera, inasprisce e diventa allegoria. La Croazia tra pianerottolo e uscio.
L’idea di Grlić, esponente di punta del cinema croato, riformula una topografia domestica. Le strade di Zagabria attraversano i salotti, entrano in stanza e scoprono ipocrisie e velleità di una capitale giovane con malcontenti antichi. In casa, Vjeko ospita il padre malato. Un ex funzionario del movimento nazionale fascista, l’Ustàscia che governò la Croazia durante la seconda guerra mondiale.
Nel film di Grlić esterno si legge estraneo. Ma in casa la situazione peggiora. Scoprire il mondo che vive un piano sotto sconvolge la vita di Vjeko. In una scena tra le più toccanti si siede sulla panchina che guarda la Cattedrale della città, ricordando il ragazzo amato e scomparso. A Kaptol 31 l’edificio è immenso, ma se lo si inquadra dalla terrazza qualche scalino più in su arriva a coincidere con le spalle ricurve di Vjeko. Come a sostenere la storia di quest’uomo, al momento delle riprese la guglia a destra era in restauro. Lavori in corso, anche per lui.
Per capirne l’imponenza bisogna tornare indietro, a Kafka e a Orson Welles. Perché a Zagabria, e in particolare di fronte alla chiesa neogotica, il regista di “Quarto Potere” ha colto Anthony Perkins attraversare la piazza a conclusione di un viaggio paranoide. L’adattamento de “Il processo” è un mosaico europeo, tra scene a Roma, Praga, Dubrovnik e Parigi. L’insieme compone la più kafkiana delle realtà, anche se per Welles fu la capitale croata il vero trait d’union.
Il Teatro Nazionale Croato e la Public Open University in via Vukovara alternano un set ricostruito nell’ampia zona fiera della città, dove fu possibile girare la scena con le 850 scrivanie poste in una stanza infinita.
Non secondarie le ragioni del cuore: Welles incontrò a Zagabria la giovane attrice Olga Palinkas, conosciuta ai più come Oja Kodar. La compagna del regista negli ultimi anni di vita.
Esclusa la Cecoslovacchia, dove Kafka era ancora bandito, Zagabria è stata per Welles più di un ripiego. È una soluzione creativa: città moderna, mitteleuropea e austro-ungarica. Insieme vera e ancora immaginata, come il cinema di Grlić racconta da più di trent’anni.
Nel suo “Just between us” Zagabria è ancora vera solo visto da dentro. L’ipocrisia di due coppie si incrocia in tradimenti e misfatti che ne rivela i caratteri. Uomini e donne rilegati in casa, dove non possono imbrogliare. La quarantena dei sentimenti prima del lockdown. Grlić come gli Oasis: la rivoluzione ha inizio a letto. Perché i caffè, le strade, sono crogioli di obblighi e paure.
Nikola tradisce la moglie con una donna con cui ha un figlio. Nessuno lo sa e quando va a trovarla è costretto a rimanere in casa. Al primo errore, un’uscita al market per strada, viene scoperto. La vita urbana non perdona.
La fotografia di Slobodan Trninic incontra un mondo confuso nel mercato Dolac, dove i suoi protagonisti, fratelli capaci di amare solo nella menzogna, si rubano le amanti. La confusione umana non è nuova a Dolac 9, dove nel 1988 divenne anche rombo di motori e azione pura. Jackie Chan che in “Armor of God” salta il mercato inseguito da delle motociclette è tra le scene più belle e assurde che Zagabria abbia mai ospitato.
Quando Nikola va dall’amante finge di essere in viaggio. Ogni volta una città diversa: Monaco, Parigi, Rotterdam. Deciso con chi stare darà la risposta giusta e ritroverà ordine in questa giungla di cemento e storia: «In quale città saresti oggi?», «Zagabria».
La città borghese e sofferente cambia volto (e conto in banca) nella vecchia ferrovia, a Jagiceva 2. Il centro è ancora un appartamento. In “Fine dead girls”, di Dalibor Matanić un gruppo di famiglie si schiera contro le nuove inquiline, una coppia omosessuale che scandalizza fino a portare alla tragedia. Un noir color ocra su una capitale alle prese con la violenza mai digerita dalle guerre balcaniche. Gli edifici protagonisti oggi non esistono più, ma il film resta presente e sa spiegare alcuni misteri.
Perché in “The Constitution” si parla di un assassino di cani che si aggirerebbe con le peggiori intenzioni? La questione è secondaria nella storia, ma primaria per un’immagine che inserisce a ogni visione sulla città questo figuro. Anche quando il film finisce, la coppia aiutata dal professore parte per un viaggio (si torna fuori, all’esterno) e sul marciapiede, sfocato ma riconoscibile, c’è lui. Ombra indistinta e onnipresente di una paura urbana. Il film, del 2016, parla della lunga storia croata senza ignorare un presente incerto, costellato di dubbi e speranze (il finale felice sporcato dall’uomo misterioso) dell’ultima tra le città divenute capitali di un paese membro dell’Unione Europea.