Mentre scrivo queste righe sulla sentenza che ha condannato Antonio Ciontoli a 14 anni e i suoi sventurati familiari a 9 anni per l’omicidio di Marco Vannini mi scorrono davanti le note di agenzia e i primi commenti di stampa.
Toni trionfali e di sollievo: non c’è l’ombra di un dubbio, men che meno un soffio di umana pietà per una sciagura in cui il caso e la fatalità hanno giocato un ruolo determinante e che ha travolto non solo il povero Vannini ma anche persone che sicuramente non ne hanno causato e voluto la morte come i familiari del principale imputato, tra di loro la figlia Martina, fidanzata della vittima che dopo aver perso l’uomo che amava vede ora distrutta la famiglia e la propria vita.
Una cupa tragedia che sembra aver spazzato via oltre alle vite umane anche una qualche parvenza di razionalità che pure col diritto ha qualcosa a che fare e di cui si è smarrita ogni traccia sotto la spinta emotiva della rappresentazione mediatica del dolore straziante della madre della vittima.
La vicenda è ben nota: uno scherzo stupido e un colpo di pistola partito per sbaglio che ferisce Marco Vannini con la pallottola che entrando in un braccio e seguendo una strana traiettoria arriva a ledere il cuore. L’agonia del povero ragazzo dura circa due ore nelle quali nessuno della famiglia Ciontoli se non a distanza di molto tempo e riferendo ai soccorritori una falsa versione sull’accaduto cerca di chiamare un soccorso medico che avrebbe con certezza salvato la vita della vittima se fosse stato più tempestivo.
Una condotta sicuramente di grave irresponsabilità che meritava una punizione, non è in discussione questo, ma che sotto la spinta di una pulsione vendicativa di massa e non solo dei genitori di Marco come comprensibilmente avrebbe dovuto essere, ha trasfigurato la colpa grave, anzi gravissima, in un allucinato complotto di famiglia finalizzato a un omicidio volontario, deciso su due piedi davanti a un uomo che agonizzava.
Questo era lo scenario disegnato dalla sentenza della Corte di Cassazione che all’inizio di quest’anno aveva annullato un’altra sentenza di condanna a cinque anni per omicidio colposo stabilita da un altro collegio della Corte di assise di Appello.
Per intenderci era stata quella sentenza alla cui lettura le telecamere hanno fissato per sempre nell’immaginario collettivo l’immagine dello strazio della madre di Vannini che urlava «vergogna» ai giudici che l’avevano pronunciata. Una sequenza che tutti hanno visto, magistrati dei gradi successivi compresi.
Non c’era invece nulla di cui quei giudici dovevano vergognarsi. Avevano ritenuto grave il cinico comportamento di Antonio Ciontoli, preoccupato solo di evitare conseguenze disciplinari al suo operato, ma avevano escluso che vi fosse una volontà omicidiaria anche sotto forma di una mera accettazione del rischio che omettendo di intervenire Vannini sarebbe morto, come poi è avvenuto.
Era stato questo il tema dibattuto con sfoggio di approfondite argomentazioni tecniche di cui faccio grazia al lettore, ma che in Cassazione aveva subito una brusca virata verso una nuova tesi d’accusa a supporto dell’ipotesi più grave di omicidio volontario.
La Suprema Corte ha ritenuto che seppur frutto di un incidente in origine, la morte di Vannini sia stata voluta da Ciontoli e dai suoi succubi familiari per eliminare l’unico testimone che avrebbe potuto nuocere alla carriera del feritore, resosi responsabile di una grave negligenza. Nel decidere così gli imputati, come si suol dire “ secondo gli ermellini” sono venuti meno a un preciso obbligo giuridico di prestare soccorso a chi in quel momento non era in condizione di badare a se stesso. Una ricostruzione del tutto nuova dell’accaduto e una tesi che mai si era affacciata nei primi due gradi di giudizio dove il dibattito si era ancorato a interpretazioni tecniche e non sul fatto.
Peraltro va detto che in tre gradi di giudizio della stessa vicenda si sono date tre letture diverse: si è passati dal “dolo eventuale” del primo grado, all’omicidio colposo in appello per planare poi sull’assassinio volontario negli ultimi due processi. Una condizione che presente serie criticità secondo gli standard delle Corti europee che più volte hanno ribadito che l’imputato debba saper con chiarezza “prima del giudizio” di cosa deve rispondere e del tipo di accuse che gli vengono mosse.
Un vero e proprio paradosso ma non solo: quella della Cassazione è una teoria (che l’ultimo giudice che ha emesso la sentenza ha dovuto applicare a norma di legge) che trova due obiezioni logiche e un termine di comparazione non conciliabili con essa.
Innanzitutto la stessa sentenza conviene che la ferita subita da Vannini e la traiettoria del proiettile erano anomale, che i sintomi accusati dal ferito non manifestavano l’assoluta gravità della lesione e quindi ben potevano essere state sottovalutate. In secondo luogo la decisione di far morire il “testimone scomodo” Vannini era smentita dal fatto che i Ciontoli alla fine e sia pure con grave ritardo avevano chiamato i soccorsi mentre il ragazzo era ancora vivo.
Quanto al termine di comparazione, la situazione in cui si erano venuti a trovare gli imputati era assai simile a quella del guidatore incosciente che causi la morte di un passante e si dia alla fuga, omettendo di soccorrere la sua vittima pur capendo la gravità delle condizioni e per tale motivo causandone la morte.
Nella stessa giornata, per una singolare coincidenza, si è svolto il processo al figlio del regista Genovese che a Natale ha ucciso, investendole, due giovani studentesse. Il Pm in aula ha richiesto una condanna per omicidio stradale a “soli” cinque anni, che pur tenuto conto di uno sconto previsto dalla legge per la scelta del ragazzo di sottoporsi a un giudizio abbreviato, non avrebbe comunque superato gli otto anni di reclusioni.
Meno della metà di quelli appioppati a Ciontoli che pure nella sostanza ha causato la morte di un ragazzo per una grave imprudenza e per aver omesso il dovuto soccorso. Cosa fa la differenza? È presto detto: la pena che può essere inflitta per il reato di omicidio stradale. Che in teoria può sfiorare i venti anni di reclusione, sebbene in pratica, come per il caso di Corso Francia, la realtà sia un altro paio di maniche.
Nel caso Vannini l’omicidio colposo non da possibilità di pene esemplari come quelle pretese dai talk show e questo per la giustizia popolare è inaccettabile. Ma se il diritto si sposta dalla valutazione del fatto alla valutazione della persona si è di fronte a una pericolosa deriva: i modelli dei nemici del popolo, i soggetti asociali ed esecrabili che debbono essere cancellati dalla società o ridotti in esilio (come i poveri figli di Ciontoli) con pene esemplari a prescindere dalla gravità dei reati ma per loro stessi, hanno sempre accompagnato le politiche più tragiche del novecento.
Magari non siamo ancora a questo punto ma fa effetto notare la coincidenza tra le tesi dei talk di prima serata e le sentenze emesse “nel nome del popolo italiano”. Ma quale popolo?