Il 24 ottobre saranno centotrè anni dalla sconfitta di Caporetto, la catastrofe militare entrata nel lessico italiano come metafora di scelte strategiche inadeguate, di inefficienze tattiche e di frustrante attendismo.
La vicenda è nota e viene proposta agli studenti, con progressivi approfondimenti, fin dalle scuole elementari, anche con l’intento di trarne una morale che dovrebbe sostenerli da adulti nelle sconfitte che inevitabilmente ne accompagnano l’esistenza e educarli a ciò che aiuta a superarle. Un’iniziazione all’esercizio della “resilienza” termine tuttavia dal significato ancora poco chiaro ai più, anche se declamato a gran voce da psicologi, conduttori televisivi ed improvvisati sacerdoti del politicamente corretto.
Tuttavia, mentre sul piano individuale e su quello micro sociale si può essere resilienti sviluppando pensieri e comportamenti positivi che sottraggano al fatalismo, all’abbandono di ogni forma di resistenza e alla depressione che paralizza le reazioni vitali davanti ad eventi infausti, più difficile è farne una strategie collettiva vincente. E, ciò, soprattutto, quando a esercitarla dovrebbero essere quei poteri pubblici che manifestano piuttosto disorientamento cognitivo, incertezza operativa e, talvolta,i sintomi preoccupanti di una pericolosa schizofrenia decisionale.
La causa di tale disallineamento tra il paese reale, il variegato mosaico delle autonomie regionali che qualcuno vorrebbe addirittura incrementare e l’empireo dei palazzi governativi, è l’errato convincimento di generare il consenso e di mantenere a ogni costo il potere, mentre lo si sente sfuggire tra le dita, come accade con la sabbia quando ci si illude di trattenerla all’interno di un pugno.
Tutti i governi in difficoltà e soprattutto quelli tenuti in piedi da precari accordi pattizi o da clausole notarili e privi dunque di una solida e condivisa visione politica del presente e del futuro, ricorrono all’ambiguità e all’auto-contraddizione, quando non alla manipolazione dei dati, alla menzogna e alla propaganda, confidando nell’emotività della cittadinanza che, temendo per il proprio futuro, è facile preda di ogni straccio di promessa.
Non a caso, celebriamo come tali le eccezioni individuate in pochi ma ben diversi comportamenti con cui alcuni leader mondiali hanno avuto il coraggio di dire la verità, ricordando forse che essa è l’unica risorsa a rendere liberi, come proclama Giovanni, l’evangelista più colto e visionario del Nuovo Testamento che, esiliato nell’isola di Patmos, verga in precaria solitudine il Libro dell’Apocalisse ed è capace di individuare la speranza nella disperazione che pure descrive in ogni crudo particolare. Del ruolo a volte salvifico del naufragio e della solitudine ho scritto su queste pagine.
Più vicini a noi, anche se meno spirituali, sono gli esempi dati da statisti che non hanno nascosto la verità ma ne hanno fatto lo strumento principale per riunire un popolo frammentato e impaurito, guidandolo con spirito resiliente alla necessaria capacità di reazione.
William Shakespeare ce ne offre alcuni squarci nella tragedia Enrico V. Il giovane re ha trascorso la notte nascosto dal mantello ad ascoltare i timori serpeggianti tra i bivacchi delle truppe circa la disparità numerica con i nemici francesi e l’eventualità di sottrarsi allo scontro; egli si è fatto con umana partecipazione uno di loro. Il mattino seguente sale su un carro e pronuncia l’indimenticabile esortazione rivolta a quei pochi ma felici che, incoraggiati dalle parole e dall’esempio, finiranno per sconfiggere l’arrogante nemico nella battaglia di Azincourt e cambieranno il corso della Storia: «Questa storia il brav’uomo insegnerà a suo figlio: e i Santi Crispino e Crispiniano non passeranno, da oggi fino alla fine del mondo senza che insieme a loro non ci si ricordi anche di noi; noi pochi, noi felicemente pochi, noi banda di fratelli: perché chi oggi verserà il suo sangue sarà per me fratello, per quanto sia umile di nascita, questo giorno lo nobiliterà; e i nobili in Inghilterra che dormono nei loro letti dovranno pensarsi sfortunati per non essere stati qui, e dovranno sentire come scadente la loro virilità, mentre parlerà chiunque abbia combattuto con noi il giorno di San Crispino». Come recita Kenneth Branagh nel film omonimo del 1989.
Medesime sono parole e postura del leader nel film del 1996 Indipendence Day di Roland Emmerich, con Will Smith, Jeff Goldblum e Thomas J. Witmore nel ruolo del presidente degli Stati Uniti: «Buongiorno. Fra meno di un’ora, i nostri aerei si uniranno agli altri aerei di tutto il mondo. E insieme daremo luogo alla più grande battaglia mai sostenuta dall’umanità. L’umanità… oggi questa parola dovrebbe assumere un nuovo significato per tutti noi. Non possiamo più essere consumati da diversità insignificanti. Saremo uniti dal nostro comune interesse. Può darsi sia destino che oggi sia il 4 luglio, e ancora una volta combatterete per la nostra libertà. Non dalla tirannia, dall’oppressione o dalla persecuzione, ma dall’annientamento. Combattiamo per il nostro diritto di vivere, di esistere. E se dovessimo risultare vincenti, il 4 Luglio non sarà più ricordato solo come una festa americana, ma come il giorno in cui il mondo con una sola voce ha dichiarato noi non ce ne andremo in silenzio nella notte. Noi non ci arrenderemo senza combattere. Noi continueremo a vivere. Noi sopravvivremo. Oggi, festeggiamo il nostro giorno dell’Indipendenza!».
Donald Trump l’ha riproposto a maggio in un tweet, sostituendo il proprio volto a quello di Thomas J. Withmore la cui reazione al vetriolo ha reso evidente la distanza che separa un attore da un pagliaccio d’infimo ordine.
Parole da film? No, se solo ripensiamo a quelle di Winston Churchill rivolte ai propri connazionali all’inizio dell’assedio aereo posto dalla Luftwaffe nel 1940 a preludio dell’invasione delle Isole britanniche «Non ho nulla da offrirvi se non sangue, fatica lacrime e sudore!».
Oggi qualche idiota vorrebbe rimuoverne la statua in Parliament Square e il sindaco Sadiq Khan si è premurato di ingabbiarla, quasi vergognandosene, come se si trattasse di quella di Saddam Hussein. Forse un briciolo di nanismo è rimasto attaccato alle insegne municipali trasmessegli da Boris Jonhson, suo predecessore. Effetti perversi di un politicamente corretto che non ha impedito a un giovane terrorista islamista di terza generazione di decapitare un insegnante a Conflans Sainte Honorine, cittadina poco a nord di Parigi, perché aveva osato parlare ai propri studenti di libertà di espressione.
Le ultime parole proferite da Horatio Nelson, già moribondo sulla tolda della nave ammiraglia Victory durante la battaglia navale di Capo Trafalgar nel 1805 furono «L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere!». Venerava il proprio Paese e sapeva infondere il medesimo sentimento negli uomini che servivano sotto il proprio comando. La tomba è nella cripta di St Paul’s Cathedral; vicina a quelle di John Donne, di T.H. Lawrence, di Florence Nigthingale.
Una lapide ricorda il poeta visionario William Blake che ne fu escluso perché non credente. l ricostruttore di Londra dopo il Great Fire del 1666 fu il primo a esservi ospitato e il suo epitaffio recita: «Qui nelle sue fondamenta riposa l’architetto di questa chiesa e città, Christopher Wren, che visse per oltre novant’anni, non per il proprio tornaconto ma per il bene comune. O tu che leggi, se cerchi il suo monumento, guardati attorno. Morì il 25 febbraio 1723». Quando le parole sono un monumento più duraturo della pietra!
E che dire di quelle sofferte e ben scandite da Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace del 7 agosto 1946 a Parigi: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l‘essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».
Verità, dovere, coraggio, onestà intellettuale, schiena dritta, umiltà unita a fierezza, missing in action nel governicchio di Giuseppe Conte e dei relativi accoliti e turiferari.
Di notevole impatto in questi giorni è l’ottima trasmissione I Grandi discorsi della storia mandata in onda da RAI3 e curata da Aldo Cazzullo con la consulenza linguistica della brava Flavia Trupia autrice di “Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno” edito da Franco Angeli nel 2016. Nelle sue accurate analisi semantiche, ritrovo con nostalgia le lunghe chiacchierate con il padre, Piero, autore di “Logica e linguaggio della politica” nella casa romana che guardava la cupola della Basilica dei Santi Pietro e Paolo all’orizzonte dell’EUR e le figure retoriche che oggi non si insegnano più ma rimangono patrimonio fertile in noi che con tanta fatica le studiammo e continuiamo ad amare.
Vere finestre di significato che si aprono nel muro del discorso e diventano immagini vive e palpitanti. Le catalogò Marco Fabio Quintiliano nel primo secolo dopo Cristo, primo maestro di retorica remunerato dalle casse pubbliche, ma venivano da lontano quando già il sofista Gorgia da Lentini le aveva definite «artifici volti a creare un particolare effetto».
L’ingegner Rocco Casalino beneficia della medesima prebenda istituzionale, ma quei temi gli sono stati sempre ostici. Che sia stato questo il motivo che lo indusse ad abbandonare gli studi classici per conseguire un dignitoso e più pratico diploma di ragioniere?
Caporetto dunque di fatti e di parole la cui forza può cambiare il mondo e ciascuno di noi? Come dimenticare i protagonisti del film del 1959 La Grande Guerra di Mario Monicelli in cui due grandi interpreti del carattere nazionale, Alberto Sordi e Vittorio Gassman recitano le parti del romano Oreste Jacovacci e del milanese Giovanni Busacca. Seppur di carattere completamente diverso, sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare ogni pericolo pur di uscire indenni dalla guerra. Catturati dal nemico, si trasformano da lavativi pronti a tradire in eroi senza lapide e affrontano il plotone di esecuzione reagendo all’ufficiale austriaco che ironizza sul valore dei soldati italiani in uno dei dialoghi rimasti famosi nella storia del cinema.
Ufficiale austriaco: «Fegato dicono… Quelli conoscono solo il fegato alla veneziana con cipolla. E presto mangeremo anche noi quello. Dunque.. Dove?».
Giovanni: «No dico, cosa c’entra questo?».
Ufficiale austriaco: «Prego?!».
Oreste: «Ah Giovà?».
Giovanni: «Stai buono!… E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!». La musica di Nino Rota copre il fragore della raffica che li uccide.
D’altronde, più di ogni citazione sul coraggio di parlar chiaro vale la lapidaria risposta del generale Pierre Jaques Etienne, visconte di Cambronne, riferita nel XV capitolo de I Miserabili di Victor Hugo, a chi ne chiedeva la resa durante la Battaglia di Waterloo nel 1815. L’autenticità dell’unica parola è controversa, Cambronne, ferito, sopravvisse ricoperto di gloria anche durante la Restaurazione e morì nel 1842. La sua colorita espressione è diventata eterna, ha oltrepassato le barriere linguistiche europee ed è entrata nell’uso comune anche negli Stati Uniti dove l’imprecazione shit! ricorre quale cifra del massimo disappunto. Ed è di una pioggia fecale, fuor di ogni metafora, che i contadini del film Novecento di Bernardo Bertolucci del 1976, fanno oggetto il truce fattore fascista Attila Melanchini (Donald Sutherland) che li vessa in nome di un padrone imbelle ed assente, piegato supinamente al regime.
Parole come pietre, dunque, scagliate contro l’arroganza e la supponenza del potere che ieri come oggi si nutre di vanagloriosi soliloqui, credendosi onnipotente e inamovibile per il timore dei propri alleati di governo di confrontarsi con possibili quanto esecrabili alternative democratiche.
Ma non fu Paolo Borsellino a dire che «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola»? Citava Giulio Cesare di Shakespeare «I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una volta».
Sembra il destino del Partito Democratico di Nicola Zingaretti che esita a considerare chiusa l’attuale esperienza di governo, preferendo navigare a vista; glissa su Ius soli, pretende debolmente il ricorso ai fondi del Meccanismo europeo di stabilità; per oltre un anno ha tollerato i decreti “sicurezza” firmati da Matteo Salvini e da un Giuseppe Conte in versione giallo verde. Mentre l’Unione Europea sta per comminare sanzioni alla Russia di Putin per crimini mostruosi, il segretario del Partito Democratico finge di non accorgersi della visita del ministro degli esteri Luigi Di Maio al proprio omologo Serghey Lavrov, offrendosi come mediatore non richiesto e frattanto tace su Donald Trump. Forse Zingaretti ha paura dell’Uomo della Provvidenza, allevato a Villa Nazareth e tanto gradito “oltre Tevere” di cui ho ricostruito il passato e le amicizie nell’articolo del 10 ottobre. Forse spera fino all’ultimo di neutralizzare Carlo Calenda nella corsa al Campidoglio, unendo per l’eternità un vivo ad un morto sia pure stellato, come nelle più truci torture praticate nel Medioevo ma non disdegnate dai sovietici autori del massacro di Katyn e dai “titini” delle foibe?
La manifesta impreparazione che emerge in queste ore con drammaticità davanti alla pur prevista ripresa della pandemia da Covid 19 è la nuova Caporetto italiana dove, ora come allora, un esercito di soldati coraggiosi – pur con qualche cialtrone – fu indicato con enfasi propagandistica ad esempio per il mondo ed è ora sottomesso a generali inadeguati ed a colonnelli da operetta, rischiando il massacro civile ed economico.
L’astro nascente della storiografia italiana, il professor Alessandro Barbero, nel libro Caporetto edito da Laterza nel 2017 ha cercato una risposta ad alcune domande esiziali: «Fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l’esercito italiano si rivelò all’improvviso così fragile? L’Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell’esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti – contadini o operai – che avevano imparato il mestiere sul campo…un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti i problemi».
Da più alto podio, Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 2 aprile 2017 ha scritto a chiare lettere «Cadorna, sconfitto a Caporetto, gettò la colpa sui soldati». L’8 Settembre 1943 ha avuto in Caporetto un tragico prequel, si sta scrivendo un inevitabile sequel nell’ottobre di questo indimenticabile 2020? Non credo di essere stato infausto profeta quando ne ho scritto l’8 settembre di quest’anno, mentre il governo incoraggiava gli italiani ad andare al mare promettendo allettanti bonus vacanze. Ci sono frasi che portano male e che andrebbero evitate, non fosse altro che per non vedersele sbattute in faccia dopo poco tempo. Ma, si sa, l’Italia è paese di tante memorie e di poca memoria.
In conclusione, non posso lasciare fuori da questa intensa quanto sofferta riflessione il ruolo del Capo dello Stato dal quale con tutto il rispetto e con la massima comprensione dei limiti geometrici entro cui lo inscrive il dettato costituzionale, non appaia irriguardoso attendersi parole severe al Parlamento e al Governo che anche l’Unione Europea gradirebbe ascoltare. Dalla massima carica dello Stato che l sentimento nazionale pone senza la minima flessione al vertice della classifica della stima e della fiducia ed in cui convergono con singolare coerenza la biografia personale e le alte parole pronunciate durante questo tormentato mandato, è lecito aspettarsi ora un più deciso esercizio di quel potere di moral suasion a cui la Consulta ha riconosciuto con sentenza n.1 del 2013 la piena legittimità quale dovere costituzionale.
Se non ora quando, Signor Presidente, se non ora quando? La linea del Piave appare lontana e i fanti, intontiti dai gas tossici della propaganda governativa, già cominciano a marcire nelle trincee.