La vita è fatta di compromessi, di scelte su cosa sacrificare e cosa considerare meno peggio. Gli economisti parlano di trade off, per esempio tra salari e occupazione, per cui nel breve periodo privilegiare la creazione di nuovi posti di lavoro si potrebbe ottenere sacrificando i salari, mentre viceversa aumentare gli stipendi potrebbe ridurre o rallentare la creazione di posti di lavoro.
Vi sarebbero decine di altri esempi, ma il punto è che ogni scelta è strettamente legata a un’altra e ha effetti collaterali da valutare. A volte però la situazione è ancora più complessa, soprattutto se allunghiamo lo sguardo temporalmente, e il trade off in realtà non esiste, o è solo parziale e apparente.
È quello che accade con il Covid e le chiusure di bar, ristoranti e altri centri di aggregazione che potremmo definire con orribile approssimazione voluttuari, perché non sono luoghi di lavoro, se non per chi li gestisce e ne trae guadagno, e questo è un caveat enorme,
I dati cambiano tutti i giorni, ma dall’inizio di ottobre sono emerse alcune tendenze che vedono il contagio diffondersi in particolare nelle grandi aree urbane, a differenza che nella prima ondata, e in particolare quelle di Milano, Napoli, Genova, di nuovo con la Lombardia ai primi posti tra le regioni più colpite.
Le città sono abitate da una popolazione mediamente più giovane rispetto alla provincia – non a caso nella seconda ondata l’età media dei positivi è molto più bassa – e quelle in cui la vita sociale è più viva, in cui ci si reca per fare l’aperitivo o la cena anche se non ci si abita.
Anche in assenza di restrizioni, già a metà ottobre dove vi erano più contagi minore era la mobilità delle persone, almeno quella misurata da Google considerando gli spostamenti di coloro che hanno attivato la cronologia delle posizioni in Google Maps.
In Italia nella settimana tra il 12 e il 18 ottobre in media gli italiani si sono recati in negozi, bar, ristoranti, ma anche nei cinema e nei teatri – in quei luoghi che Google chiama “Retail & Recreation” – il 16,1 per cento in meno rispetto al periodo di riferimento pre-Covid, ovvero a quello tra il 3 gennaio e il 6 febbraio, e questo già dice molto dei timori che gli italiani nutrono verso un contagio in aumento. Ma la le province che vedono un maggiore calo sono proprio quelle che includono i grandi centri abitati, Città metropolitana di Milano in testa con un -24,4 per cento, seguita da Napoli e Roma quindi da Trento e Genova.
Nella stessa settimana, in gran parte di queste aree i contagi erano sopra la media nazionale, e si può notare una stretta relazione tra contagi e minore frequentazione di bar, ristoranti, negozi e altri ambiti ricreativi. A Milano vi erano 215,2 casi settimanali per 100 mila abitanti, più del doppio della media nazionale, a Genova 230,3, a Napoli 155,8.
Non è un caso che in altre province popolose e con capoluoghi vivi, come Lecce e Bergamo, la riduzione dei movimenti fosse minore, grazie a un contagio che era sotto i 20 casi settimanali su100 mila abitanti.
Bergamo poi, una delle aree più colpite in primavera assieme a Brescia e Cremona, che era sopra la media quanto a calo della frequentazione di negozi, bar, ristoranti, ecc, dopo il 20 ottobre è scesa sotto una media nazionale in cui il segno meno diveniva sempre più profondo. Al contrario di quanto avveniva a Milano, Roma e in particolare a Napoli, in cui si è andati da -10 a -23,4 per cento in pochi giorni. A Napoli, in particolare nei quartieri più popolosi, l’impennata dei contagi è cominciata prima che a Milano.
A Milano e Roma la riduzione della circolazione, rispetto a gennaio e alla media italiana, era presente anche prima, probabilmente legata allo smart working nelle grandi aziende e nella pubblicazione amministrazione, ovvero a coloro che non si recavano più nelle grandi città per lavoro, svolto nella propria regione di appartenenza.
Ma il dato ancora più rappresentativo è quello relativo a quanti restano in casa, che già a fine settembre in Italia in media erano più che in gennaio, di circa il 2,5-3 per cento, nonostante il tempo più clemente, segno di un timore del Covid che rispetto alla prima ondata non si era azzerato. Sono però ulteriormente cresciuti a partire dal 10 ottobre, quando l’incremento dei contagi è divenuto preoccupante, e questo aumento è stato molto più importante a Napoli, mentre a Roma e Milano la percentuale di persone in casa, anche se era già maggiore della media (anche qui probabilmente per lo smart working), è ulteriormente aumentata.
Tra il 12 e il 18 ottobre, in media, nelle città Metropolitane di Napoli e Milano si è registrato un +7,9 per cento del tempo passato in casa rispetto al periodo del 3 gennaio-6 febbraio, contro un +4,7 per cento nazionale. Non si tratta di un incremento di poco conto se si considera il numero di ore che normalmente si passano in casa, e la base su cui viene calcolata questa percentuale è quindi ben più ampia di quella relativa alle presenze in ristoranti e negozi.
In questo caso la correlazione con i contagi dello stesso periodo è ancora più diretta. Dove ci sono più attività si tende a uscire di meno, sia per andare al ristorante che nei negozi o in altri luoghi. Lecce, Brindisi, Crotone e Vibo Valentia sono tra le città più al riparo nella seconda ondata e anche quelle in cui è minore la percentuale di chi rimane in casa rispetto all’inizio dell’anno. Notevole anche la differenza tra Isernia, dove i positivi sono sopra la media nazionale, e la vicina Campobasso, dove al contrario sono molto pochi. Lo stesso divario si ritrova anche a livello di permanenza tra le mura domestiche.
Ma è nelle province con grandi città che questa tendenza appare più evidente. I cittadini si muovono meno se nella propria area aumentano i contagi, anche senza coprifuochi o chiusure anticipate dei locali. Non si tratta solo dell’allarme mediatico, anche se questo fattore esiste ed è stato rilevante a Napoli grazie alla comunicazione del governatore campano Vincenzo De Luca, come al solito d’impatto.
C’è anche un tema di conoscenza personale di chi è risultato positivo o è in isolamento fiduciario. Sono aumentati in pochi giorni colleghi, parenti, vicini di casa, amici e conoscenti colpiti direttamente o nel nucleo familiare dal contagio, e tra coloro che sono stati toccati direttamente dal dovere di rimanere in casa e coloro che li conoscono e hanno timore e si richiudono in casa o diminuiscono le occasioni sociali, il numero diventa importante e determina gli effetti che vediamo.
La situazione è amplificata quando ciò avviene in un centro urbano. Un conto è sapere che ci sono focolai in una valle o in alcuni paesi a diversi chilometri all’interno della propria provincia, un altro è se i contagi si registrano nello stesso quartiere o in quello a fianco.
Ancora prima delle restrizioni è il Covid che trattiene a casa le persone, dobbiamo capirlo. Questo non vuol dire che i coprifuochi e le chiusure a volte sommarie (come nel caso dei teatri e dei cinema) siano giusti o che non aggiungano un importante danno economico a quello già presente, ma vuol dire che il modo migliore per sconfiggere la crisi economica provocata dalla pandemia è in primo luogo sconfiggere il virus.