Franchezza e fatica in sellaCommentare il Giro d’Italia con Francesco Moser, il ciclista più vincente di sempre

Il campione parla dell’inizio della competizione dell’anno in tempo di Covid e si racconta (con qualche curiosità): per esempio che diventò ciclista per colpa del fratello Aldo, e che conobbe Coppi e Bartali - il secondo lo sgridava pure

MARCO BERTORELLO / AFP

Francesco Moser mi risponde al telefono da Noto dove ha appena percorso qualche giro nel velodromo della città, accolto col solito affetto dal pubblico, l’affetto che merita il ciclista italiano più vincente di sempre (273 vittorie, solo Merckx e Van Looy meglio di lui). Oggi comincerà il Giro d’Italia in quest’insolita edizione autunnale e lui spera di poterlo seguire per intero. Ma, in breve, più che un’occasione per parlare di questa stagione complicata, la chiacchierata diventa una scusa per qualche racconto su cosa sia la passione per il ciclismo e quale ne sia il mistero. Moser è, in qualche modo, uno dei pionieri del ciclismo moderno: ha inventato i copriscarpa e gli occhiali da corsa, ma parlare con lui, ascoltare la sua franchezza (quanto è piacevole la franchezza quando non è artefatta!), fa capire che poi, nonostante tutta la tecnologia del mondo, ciò che conta è la fatica. È quella che continua a eccitare gli spettatori e gli appassionati ed è sempre quella che genera quella forma di solidarietà verso i protagonisti che rende unico questo sport.

Finalmente il giro parte.
Per ora partiamo, speriamo che non ci fermino. 

L’idea di comprimere tutta la stagione in pochi mesi ti è piaciuta?
Eh, o così o niente. Non c’era mica molto altro da fare. E poi tante corse secondarie non le hanno neanche fatte. Il giro del Trentino, che poi adesso si chiama Giro delle Alpi, per esempio, non lo fanno. E comunque finito il Giro non faranno più corse.

Anche il percorso è un po’ diverso.
Dovevano partire in Ungheria, invece si parte in Sicilia. Ma il problema sarà il tempo, perché dobbiamo salire sullo Stelvio e lì, se nevica, non si sale. 

Il Tour de France ti è piaciuto?
È stato bello. Ma questi della Jumbo credevano di avere in mano la corsa, hanno fatto un lavoro da matti e poi, alla fine, hanno solo portato a spasso Pogacar. Hanno valutato veramente male la gara. Non puoi portarti Pogacar sempre dietro, farlo stare a ruota, fargli vincere le tappe e fare finta di niente. Con una squadra come quella dovevi mettere in sicurezza il risultato da prima. 

L’hanno sottovalutato?
È vero che Pogacar è giovane e pensavano che saltasse, ma se ogni giorno ce l’hai lì e ti batte il dubbio che è più forte di deve finire. E poi anche quei pochi secondi di vantaggio li avevano presi con un ventaglio.

Anche tu avevi cominciato a correre a 18 anni. Tardissimo.
E a 21 ero professionista. 

Adesso sarebbe impossibile?
C’è ancora qualcuno che salta il dilettantismo come Pozzato che è andato bene i primi anni, ma su di lui molti avevano delle aspettative alte che poi non sono state rispettate. 

Nella tua biografia hai raccontato che, un bel giorno, a 18 anni sei andato da tua madre e le hai detto che avresti fatto il ciclista. Che era successo?
È stata colpa di mio fratello Aldo. Quell’anno lì, era il 1969, aveva preso la maglia rosa: è tornato a casa e sull’onda dell’entusiasmo mi ha detto «vieni a correre anche te e vedrai che magari… ti do una delle mie bici!». Io andavo già in bici, ma non abitualmente. Invece alla fine di luglio ho corso la mia prima gara.

Avevi firmato anche la preiscrizione al seminario. Potevi diventare un prete ciclista come Don Matteo.
Sì, ma sono scappato subito. 

Ho letto che ti senti «un semplice contadino prestato alle corse».
Appena ho smesso ho comprato il maso dove ho la cantina e vivo ancora lì. Invece, all’inizio, davamo il vino alla cantina sociale. Poi, quando mio fratello ha smesso di correre, abbiamo cominciato a imbottigliare. Facevamo le bottiglie con la mia foto sull’etichetta. C’erano dei tifosi che le collezionavano, le avevano tutte. Le compravano più per l’etichetta che per il vino. Una volta uno che le vendeva viene da noi a comprarle da me e io gli dico «non ne abbiamo più di vino». E allora lui mi fa «ma mettici l’acqua, tanto non le bevono, le tengono solo su sul banco!».

Col tempo è diventato un vino molto noto.
Nel 2000 abbiamo anche rifatto la cantina. Adesso ci siamo specializzati con lo spumante. 

Com’è andata quest’anno?
Ha piovuto troppo da noi per l’uva, ma poi, per fortuna, si riesce sempre a sistemare in qualche modo. Qui in Sicilia ha piovuto poco, invece. 

Hai visto lo spot della Rai per il Giro con la ricostruzione al computer dei grandi corridori del passato?
Bello, ma potevano usare i filmati veri. Li hanno i filmati, facevano più effetto quelli. Non approvo tanto ‘ste cose. Perché devono stare lì a fare tutto questo sforzo per girare delle immagini che poi, in realtà, sono finte? Non è che devono fare la pubblicità a una scatola di biscotti o a una bottiglia di vino. Fanno la pubblicità al Giro, cosa c’è di meglio di usare le immagini vere? Per me sono soldi buttati via, ma poi ne buttano via tanti, quindi vanno bene anche questi.

Si domanda Gianni Mura nel documentario “L’Ultimo chilometro”: «cosa spinge la gente a dormire in una tenda in montagna per aspettare i ciclisti e non guardarseli in poltrona in televisione».
Io sono andato tante volte a vedere le corse. Mi ricordo che una volta eravamo saliti col pullman – avrò avuto 15 anni – e il Giro doveva arrivare alla Malga Ciapela, ma poi ha nevicato, pioveva, faceva un freddo. Noi eravamo saliti dal Pordoi, eravamo in queste baite per ripararci e lì ci hanno avvisato, ma non subito, che i corridori non potevano passare. Il Pordoi, da dove eravamo arrivati, era bloccato e il pullman ha dovuto mettere le catene per portarci a casa: è stata un’avventura.

Ci saranno i tifosi sulle strade o prevarrà la paura?
Se non vietano di andare com’è successo qualche giorno fa alla Freccia Vallone o, negli ultimi giorni, al Tour ci saranno.

È ancora un modo unico per molti di ammirare la fatica degli altri.
Nel ’68, quando Merckx ha vinto per la prima volta il Giro, io non correvo ancora. Sono andato alle Cime di Lavaredo, in tre con una 850 e poi a piedi. Siamo partiti da casa che era caldo, con le scarpe basse, ma quando siamo arrivati su ha cominciato a piovere. Arrivavano i corridori su in cima uno alla volta, non li riconoscevamo neanche. Le Cime di Lavaredo sono dure, le ho fatte anche io qualche anno dopo. Andavo a vedere le corse perché c’erano i miei fratelli: Aldo, Enzo e Diego. Hanno fatto il Giro d’Italia tutti e tre, e Aldo e Enzo hanno anche preso la maglia rosa.

Sarai andato anche da bambino.
Ricordo l’anno in cui ha vinto Nencini, ero piccolo e ho un ricordo vago. Avevano inaugurato la funivia della Paganella che adesso non c’è più. E lì avevano fatto arrivare la tappa del Giro. Noi eravamo a sette-otto chilometri da lì e siamo andati col trattore con le sovrasponde piene di gente che adesso ti metterebbero in prigione. Avevo cinque anni.

Coppi e Bartali?
Il primo ricordo che ho dell’infanzia è che era venuto Coppi a un circuito a Trento perché c’era mio fratello Aldo, nel 1955. Ero andato giù con mio padre per questo “circuito degli assi”, con Coppi, mio fratello, Magni. Ho un ricordo vago di tutta questa gente felice. C’era pure Bartali che aveva appena smesso e allora era il direttore sportivo dei miei fratelli, Aldo e Enzo, alla San Pellegrino. Era venuto a casa nostra, io l’avevo incontrato ed ero diventato bartaliano per quello. Perché l’avevo visto.

Poi l’hai conosciuto meglio?
Lui ha sempre fatto il Giro al seguito, anche quando correvo io. Con la Gazzetta o con la Sprite o con la Cola Cola, aveva tutti i suoi sponsor. Spesso andavamo a mangiare assieme e ci raccontava cose che non ci sembravano neanche vere.

Che tipo era Bartali?
Gli ultimi anni veniva al Giro e guidava da solo. Io lo sgridavo perché ormai avevo confidenza. Gli dicevo «guarda che ti addormenti e finisci fuori strada», ma lui non si fidava di nessuno e diceva «gli altri non sono capaci». Una volta è anche andato davvero fuori strada per un malore e forse proprio in quell’occasione l’hanno operato per mettergli un pacemaker. Lui aveva pochi battiti al minuto e, quando invecchi, i battiti diminuiscono ancora. Anche mio fratello, che ora ha 86 anni, ha dovuto metterlo. Anche Merckx ce l’ha e forse ce l’aveva anche Gimondi.

Questa estate sono saltate anche le Olimpiadi. Tu hai partecipato alle Olimpiadi di Monaco nel 1972.
Noi eravamo proprio di fronte alle finestre degli israeliani quando c’è stato l’attacco. Ma non abbiamo sentito nulla, di notte, quando i terroristi sono entrati. Quando ci siamo svegliati alle sette e volevamo andare a fare colazione – la mensa era separata: una per gli uomini e una per le donne, chiuse con due recinti – abbiamo dovuto scavalcare per entrare in quella delle donne perché c’erano poliziotti dappertutto. Sui tetti, in borghese con le divise da atleti, ovunque. Il particolare delle divise non lo dimenticherò mai. Quando sono andati via è tornato tutto come prima, ma ci hanno obbligato a farci riconoscere mentre prima non ci chiedeva niente nessuno.

Chi vince il Giro?
Mah, non mi pare ci sia un grande favorito. 

Nella biografia dici che si corre o per vincere o per perdere. Mai per partecipare. De Coubertin non sarebbe felice. Oggi si corre per piazzarsi bene?
È cambiato tutto il sistema di correre. Le squadre hanno trenta corridori e li mandano ovunque. Dicono di correre tanto, ma corrono meno di noi. Si riposano, fanno preparazione. Noi, invece, quando cominciava la stagione correvamo tutto l’anno. E facevano pure la stagione in pista per guadagnare qualcosa in più perché non avevamo mica gli stipendi che hanno loro.

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