Il sessismo linguistico e i nomi professionali femminili. Il linguaggio di genere e l’attenzione all’inclusività, che parti del femminismo e della comunità Lgbti+ concretano attraverso forme finali in –u, chiocciole, asterischi, schwa. Cerchiamo di chiarire tali questioni, spesso mal poste e più spesso mal risolte, con Cecilia Robustelli, professoressa ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Collaboratrice dell’Accademia della Crusca dal 2001, ha recentemente pubblicato sulla rivista Atlantide di Treccani “Donne, uomini e linguaggio di genere”.
Professoressa Robustelli, nomi femminili di mestieri: perché usarli?
L’uso dei termini di genere grammaticale femminile che indicano professione prestigiosa o ruolo istituzionale, anziché di quelli maschili, occupa un posto di rilievo nella discussione sulle caratteristiche della lingua italiana contemporanea da più di trent’anni, cioè da quando venne portato all’attenzione del grande pubblico da una studiosa di linguistica dichiaratamente femminista, Alma Sabatini, con il lavoro “Il sessismo nella lingua italiana”.
La trattazione di questa questione venne sentita e interpretata come un’operazione di stampo femminista, e così in effetti era. Sabatini attinse queste sue idee da un’attività di studio e di ricerca sulla rappresentazione delle donne nel linguaggio, che era nata negli Stati Uniti in ambito femminista. Questo suo interesse, che era rimasto completamente sconosciuto nell’ambito della linguistica, venne condiviso negli anni ’80 dalle istituzioni italiane.
Perché? Per una questione di opportunità: il lavoro di Alma Sabatini venne considerato uno strumento importante per lavorare sulla questione della parità di genere e dei diritti delle donne e, in tale ottica, fu pubblicato dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Però le sue raccomandazioni, e su tutte quelle sull’uso dei termini femminili, vennero accettate in toto dal movimento femminista ma praticamente ignorate dalle istituzioni, che pure le avevano pubblicate.
Anche se nel “Codice di stile delle comunicazioni scritte a uso delle pubbliche amministrazioni”, promosso da un giurista eccezionale, che all’epoca ricopriva il ruolo di ministro della Funzione pubblica, Sabino Cassese, e pubblicato nel 1993, compariva un lungo paragrafo sul linguaggio non sessista, con relative indicazioni per l’uso.
E il grande pubblico?
Ha appreso le proposte di “cambiamento” del linguaggio dai giornali. Ma questi scarnificano il volume di Sabatini, lo deridono, lo riducono a una serie di raccomandazioni per l’uso, ignorando le motivazioni teoriche sulle quali l’autrice le aveva basate. E così si formano posizioni diverse, che hanno attraversato i decenni e che puntualmente tornano alla ribalta ogni volta che si riaccende la discussione: ci sono coloro, soprattutto donne ma non solo, che conoscono a fondo la questione, usano consapevolmente la lingua italiana e abitualmente le forme femminili; c’è poi il grande pubblico “benaltrista”, che finge di conoscerla ma in realtà non è in grado di prendere posizione e si rifugia in un vacuo «c’è ben altro di cui parlare»; e infine c’è lo zoccolo duro caratterizzato dall’ignoranza crassa di come funzionano le lingue, contrappesata da altrettanta presunzione che fa proposte inaccettabili del tipo: «Allora bisognerebbe dire pediatro, giornalisto, ecc». C’è poi un’altra posizione.
Quale?
Quella della comunità Lgbti+, fatta di persone molto attente all’uso della lingua in relazione al sesso e al genere, che hanno il merito di sollevare periodicamente la discussione su questo tema. Ho avuto alcune occasioni di confrontarmi con loro e di discutere le loro proposte di intervento sulla lingua italiana, ed è sempre emerso un problema, che qui vorrei provare a chiarire ancora una volta: la distinzione fra genere grammaticale, sesso e genere socioculturale.
Sono tre concetti diversi che vengono spesso confusi non solo dalla comumità Lgbti+ ma anche, e soprattutto, da una ricca serie di linguisti/e improvvisati, che pontificano in rete e ingenerano confusione anche nelle persone genuinamente interessate a capire la questione. Dunque, proviamo a fare chiarezza: il genere grammaticale delle parole, che indicano esseri animati, rappresenta una modalità antichissima di classificazione in base alle caratteristiche sessuali, presente in molte lingue. Il genere grammaticale viene assegnato in base al “sesso” di una persona, cioè alla sua appartenenza al sesso maschile o femminile.
Per indicare una persona di sesso maschile si usa una parola di genere grammaticale maschile, per indicare una persona di sesso femminile si usa una parola di genere grammaticale femminile: Merkel è tedesca, Trump è americano. Il genere grammaticale quindi non ci dice niente riguardo al genere socioculturale, che invece ha un rapporto con il sesso, perché è l’interpretazione sociale dell’appartenenza sessuale, un tratto continuamente in discussione, dinamico, che cambia col tempo e in base alle persone con le quali parli, alla loro cultura, al loro modo di essere, all’identità che vivono e si attribuiscono. Quello che credi, che pensi, lo espliciterai parlando di te, col tuo comportamento, e la società o le persone con cui sei lo interpreteranno in base al loro modo di pensare.
E con le persone che si definiscono non binarie o gender fluid come ci si dovrà regolare?
Ancora una volta teniamo distinti i concetti di sesso e genere: non binario o gender fluid riguarda il genere, non il sesso. Il problema, se così si può definire, può riguardare invece le persone intersessuali, una minoranza ma che ha comunque diritto a essere rappresentata, che rifiutano di essere individuate con una desinenza che indirizza verso una precisa classificazione sessuale. Ma in italiano è un po’ complicato non utilizzare una desinenza sessuale, perché l’italiano, come lo spagnolo o il francese, usa il genere grammaticale anche per accordare fra loro nomi, aggettivi, pronomi, participi.
Non ci sono infatti strumenti per usare la lingua italiana senza genere grammaticale. Si può ricorrere a termini come persona o individuo, o che indicano gruppi di persone, ma parliamo di una manciata di parole. Sinceramente credo che chi non vuole avere una identificazione di tipo sessuale deve convincersi che la lingua italiana non lo permette e trovare altri modi di comunicare, se vuole, questa sua caratteristica, ma anche ricordare che il genere grammaticale è solo una modalità di classificazione e uno strumento di coesione all’interno di un testo.
Si pensi che le donne costituiscono il 51% e continuano a essere sottorappresentate, come dimostra la resistenza che ancora s’incontra nell’utilizzare forme femminili rivolgendosi a un pubblico in cui la maggioranza sono donne.
È sempre più invalso l’uso, soprattutto in alcuni ambienti femministi e Lgbti+, di utilizzare parole in -u oppure asterischi, chiocciole, schwa nell’ottica di un linguaggio inclusivo. Qual è la sua valutazione da linguista?
Iniziamo dalle parole terminanti in –u. Non sono una modalità grammaticale dell’italiano e non possono essere introdotte nella comunicazione per una serie di ragioni: per esempio, annullano il singolare e il plurale oltre al maschile e femminile (ho vistu amicu, ad esempio, significa che ho visto un amico o un’amica o amici o amiche?), non possono essere utilizzate per gli articoli determinativi perché li modificherebbero del tutto, diventerebbe molto complesso l’accordo tra i vari elementi della frase, ecc. Nella lingua italiana l’accordo che si basa sul genere grammaticale è fondamentale.
Certi cambiamenti, come questo, possono avvenire, anzi, identificare, un “gergo”, cioè un modo di parlare, che si discosta, spesso sostanziosamente, dalla lingua comune, per ragioni che oggi si definiscono soprattutto identitarie. Ma si è già visto che queste forme, quando sono utilizzate in consessi pubblici, si ritrovano in apertura di discorso, per esempio Caru tuttu, ma nessuno poi continua il discorso utilizzando la -u finale. Per l’asterisco è la stessa cosa ma anche peggio. L’asterisco non rientra fra i caratteri del nostro alfabeto, cioè tra quei grafemi che ne trascrivono i suoni. L’asterisco non identifica, dunque, una sostanza fonica e, già per questo, è un po’ faticoso unirlo a una serie di simboli grafici che identificano dei suoni.
Lo stesso discorso vale anche per altre proposte come chiocciole, schwa, ecc. Ricordiamoci, come già chiarito prima, che tutte queste forme non hanno niente a che fare col genere: cercano di non identificare il sesso, ma il prezzo che si paga – l’incomprensione, la difficoltà di costruire frasi e poi discorsi – è troppo alto. C’è poi la questione di leggibilità e di accordo, di cui si è già parlato. Come ho già detto, il genere grammaticale ha una funzione coesiva all’interno del discorso, cioè costruisce, inanella, fa riferimenti. Se manca il genere grammaticale, le parole galleggiano in un testo e, dunque, lo rendono incomprensibile.
Ma da più parti si obietta che ogni lingua è soggetta a evoluzione…
Certo che si può evolvere. Sarà un po’ difficile però cambiare la struttura della lingua che per l’italiano, come per il francese e lo spagnolo, ad esempio, prevede quest’uso così importante del genere grammaticale come strumento classificatorio dei nomi all’interno di un discorso e come strumento di coesione.
Professoressa, ritorniamo alla questione iniziale dei nomi femminili di professioni prestigiose. Chi avversa parole come avvocata, medica, ingegnera utilizza l’argomento della cacofonicità: «Beh, ma suonano male». Che ne pensa?
Questa era un’obiezione che si poteva accogliere trent’anni fa, quando tali parole potevano apparire sconosciute. Ma non oggi che sono entrate nell’uso comune. E poi, ci sono tante parole che possono apparire non armoniose, eppure la questione non è mai stata sollevata, ad esempio, per un termine come zuzzurellone.
A opporsi molte volte all’uso di tali parole sono donne che ricoprono ruoli istituzionali. Si pensi, ad esempio, a Elisabetta Alberti Casellati, che vuole essere chiamata “il presidente del Senato”. Sbaglia secondo lei?
Noi usiamo la lingua italiana e questa, che ci piaccia o no, usa il genere grammaticale maschile per i maschi, il genere grammaticale femminile per le donne. Perché, altrimenti, non ci si capisce. Quindi, se tu sei una donna, devi accettare (anzi, dovresti chiedere!) che nei tuoi confronti si usi il genere femminile. Altrimenti non vieni identificata, si fa confusione. A maggior ragione, quando la comunicazione si svolge su piani istituzionali, la confusione non è permessa. Il linguaggio istituzionale è una varietà della lingua italiana, che ha tra le sue caratteristiche primarie la totale trasparenza. Per cui, la presidente Casellati dev’essere chiamata così: se le piace o non le piace, ha poco rilievo. La comunicazione si serve di un codice lingua condiviso, altrimenti la comunicazione non passa: si vedano i saggi di Jacobson, 1966.
E perché allora non usare la forma “presidenta”, come talora si obietta?
Perché è sbagliata. In italiano i nomi che derivano da un participio presente, come appunto presidente, finiscono in -e e si usano per il maschile e il femminile: il cantante/la cantante. A distinguere il genere, in questi casi, è l’articolo.
Passando alle parole col suffisso -tore, il cui corrispettivo è -trice, perché si legge spesso, ad esempio, la forma direttora?
Le persone che usano la forma direttora sono in genere donne adulte. La ragione è da ricercarsi nel fatto che Alma Sabatini suggerisce di usare le forme in -tora. È questo è rimasto. Non dice però di non usare le forme in -trice, come, ad esempio, attrice. Lo fa, come nel caso specifico di direttrice, osservando che questa è una forma oramai riduttiva e diminutiva, con riferimento a chi era a capo di una scuola elementare. A quel tempo, sono passati 35 anni, l’osservazione poteva anche apparire fondata. Ma, oggi, abbiamo direttrici di giornali o di musei, quindi direttrice può essere usato tranquillamente anche per loro.
E le parole terminanti in -essa vanno bandite come suggeriva Sabatini?
Assolutamente no. Alma Sabatini diede indicazioni in questo senso ma, se non fosse mancata per un incidente stradale, le avrebbe probabilmente riviste. Lei invitava a non usare le forme in -essa, perché riteneva che fosse un suffisso peggiorativo: in effetti nel ‘900, quando le donne iniziavano a chiedere cariche pubbliche, su molti giornali apparivano attacchi ridicolizzanti del tipo: «Ah, queste deputatesse che cosa vogliono». Ma i termini in –essa, che sono ormai radicati nella lingua, possiamo utilizzarli senza nessuna difficoltà: basti pensare a campionessa. Anche perché sono ampiamente attestati, in passato, nella nostra lingua senza connotazione negativa.
E la forma la poeta accanto a quella di poetessa?
Entrambe sono attestate e si possono usare. Vorrei però qui dire che, soprattutto in rete, è diffusa la pessima abitudine di coniare a ogni costo termini nuovi (non è ovviamente il caso de la poeta) e scagliarsi, senza cognizione di causa, contro quelli in uso. Bisognerebbe studiare e capire che nomi sono. Se si dice, ad esempio, regista e non registo un motivo ci sarà.
E cioè?
Le parole hanno due parti: una porta il significato e una porta la desinenza. A volte la parola è composta dalla parte col significato (ad esempio, ragazz-) + desinenza (-a/-o). In una parola, invece, come regista o giornalista la formazione avviene attraverso la parte col significato (reg- o giornal-) + il suffisso d’origine greca -ista, che significa “colui che sa fare qualcosa”. Un suffisso che è invariabile al singolare (il giornalista/la giornalista) e variabile al plurale (giornalisti/giornaliste). Qualunque buon libro di linguistica italiana dedica spazio alla formazione delle parole: basta studiarlo.