Prima di fare qualunque altra cosa, andate a disdire l’abbonamento a Sky. Subito. È urgente. Spero stiate leggendo dal telefono, così potete arrivare all’ufficio postale senza smettere, altrimenti piantate pure l’articolo e correte a inviare la raccomandata. Lo dico per il vostro bene. Fatto?
Ora che ho provveduto a dirvi di scegliere la vita, posso parlarvi della nuova droga in circolazione, che Sky vi spaccerà a dicembre. Avete presente il terrorismo psicologico che ci facevano da piccini, dicendoci che fuori da scuola ci avrebbero regalato la droga (più che terrorismo, una promessa non mantenuta)? Ecco, a Sky sono criminali in quel modo lì.
Quel che dovete sapere di The Undoing è: sono sei puntate in tutto, a chi poteva aver voglia di scriverne ne hanno mandate cinque, io le ho viste tutte in una notte e, quando mi sono accorta che mancava il finale, ho iniziato ad aggirarmi per casa col laccio emostatico che mi bloccava la circolazione, implorando altre dosi ai fantasmi delle puntate passate.
Da allora è passata qualche settimana, tutto tempo che ho trascorso a mandarmi messaggi con gli altri infelici pochi che avevano guardato la nuova droga a dosaggio incompleto.
Selezione parziale dei messaggi. «È stato il suocero?» «È stato Hugh?» «È stata la madre di Hugh?» «Ma la sorella di Hugh esiste davvero o è l’ennesima balla?» «Secondo me è stata Nicole, senza spiegazzarsi il vestito» «È stato l’avvocato» «È stato il figlio per farsi comprare un cane» «È stato il bambino grasso» «È stato il cornuto». Eccetera.
David E. Kelley è un pezzo di storia della televisione americana (nonché il marito di Michelle Pfeiffer, ma ora non divaghiamo). È quello che si è inventato Ally McBeal, per dire.
I millennial, gente per cui esistono solo i consumi culturali del presente, si sono accorti di lui con Big Little Lies, con cui The Undoing ha in comune cinque cose.
La prima è l’essere tratta da un romanzone di pronta lettura, di quelli che si comprano all’edicola dell’aeroporto e si finiscono insonni in volo e poi si mollano a bordo, perché non vorresti mai che negli sfondi di Zoom comparissero letture così poco sofisticate.
La seconda è Nicole Kidman, che abbinata alla tv a pagamento garantisce una percezione sofisticata del prodotto: certo, vengo da un romanzaccio, ma sono una serie d’un certo livello, mica m’hanno girata per Canale 5.
La terza è il debole di David E. Kelley per i registi cani-ma-con-pretese. Big Little Lies era infelicitata da inquadrature di onde che s’infrangono sugli scogli; in The Undoing Susanne Bier non ci risparmia nessun promemoria che lei è una vera artista, dall’occhio della madre ai primi piani delle mani nervose mentre il detenuto parla con l’avvocato. (Il regista di Big Little Lies era un uomo, il che permetteva di sottolinearne la canitudine senza venire espulse dal consesso civile per sospetto sessismo).
La quarta è il sadismo dell’autore, che a ogni puntata fa convergere i tuoi sospetti di spettatore (spettatore con velleità da piccolo detective) su un personaggio diverso, e anche se sai che sono false piste – certo, sembra il suocero, ma mancano tre puntate, non può essere lui, maledetti – ci caschi ogni volta, ci caschi e lo detesti, ci caschi e non puoi farne a meno. Insomma: è una relazione disfunzionale quasi quanto quella di Nicole Kidman col marito che la menava in Big Little Lies.
La quinta è il fatto che a Nicole non credi mai. Da quando, all’inizio della prima scena di The Undoing, si lava i denti, si veste, fa tutte cose che dovrebbero normalizzarla, e torna in mente Eyes Wide Shut e quella scena in cui fa pipì parlando col marito, che avrebbe dovuto evocare normalità coniugale e invece ti faceva solo dire: ma perché lei seduta sul water è un milione di volte più gnocca di me quando mi tiro a lucido.
A Nicole psicanalista non puoi credere, con tutta la buona volontà, perché una con quella pelle e quei capelli e quella struttura fisica può essere solo una modella o un’attrice, di certo non l’analista d’una paziente bruttina, io fossi la paziente bruttina altro che transfert, altro che trecento dollari l’ora: vorrei i danni, da una che non la puoi guardare senza complessarti.
(Negli anni Novanta un critico americano scrisse che, ogni volta che vedeva Julia Roberts in un film, si aspettava che gli altri personaggi dicessero «Ehi, ma tu sei Julia Roberts!» e le chiedessero l’autografo. E infatti poi deve averlo capito anche lei, e ha fatto Notting Hill, perché se hai così l’aspetto della diva puoi interpretare solo la diva, mica l’ordinaria borghese).
Tuttavia, Nicole psicanalista prosegue una grande tradizione, iniziata dalla Taylor di Beautiful e proseguita con la Wendy di Billions: psicanaliste che non capiscono un cazzo di quel che succede alle persone attorno a loro. Psicanaliste così ottuse e cascanti dalle nuvole a ogni rivelazione di doppia vita, che ti chiedi come sia possibile che qualcuno paghi per farsi capire da loro. È evidente che gli sceneggiatori americani odiano i loro analisti e si vendicano scrivendone delle versioni troppo stupide per vivere.
Ah già, non vi ho dato la composizione chimica della droga. Cioè: non vi ho detto la trama.
La trama è che, tra le mamme ricche d’una scuola di Manhattan, arriva una povera (sarebbe povera ma bella, se solo non ci fosse Nicole a privarla di qualunque rilevanza estetica). La povera, il cui figlio sta lì con borsa di studio, è un’italiana. L’italiana viene uccisa alla prima puntata.
Vi ricordate di quando le attrici italiane in America, quelle delle cui luminose carriere hollywoodiane scrivevamo, morivano prima dei titoli di testa? Questa dura un’intera puntata, il che è un progresso. Ma è nuda praticamente in ogni scena, il che forse annulla il progresso.
Compare sfoderando una tetta per allattare (discreto scandalo delle mamme ricche presenti, discrete aspettative di polemiche quando andrà in onda: urge normalizzare l’allattamento in pubblico, puntesclamativo); riappare in una lunare conversazione con Nicole, Nicole seduta e lei in piedi nuda con pelo ad altezza della faccia di Nicole; scompare dopo una festa della scuola, alla quale s’è presentata vestita come Tinì Cansino.
E muore, facendo presagire un’ulteriore polemica: far morire una che era sempre biotta è slut shaming, ovvero condanna implicita dei costumi pecorecci? (Se lo dici in inglese sembra una cosa seria).
Nelle puntate successive, quelle in cui cerchiamo di capire chi l’abbia ammazzata e David E. Kelley non ci aiuta, arriva il terzo elemento di prevedibile polemica. La morta viene raccontata come una pazza, un’ossessiva, una stalker. Victim blaming, puntesclamativo. Cioè la versione internazionale di «se l’è cercata».
E poi c’è Hugh Grant. Che purtroppo fa la cosa per cui lo amiamo – l’irresistibile stronzo – solo nella prima puntata. Dopo è impegnato a fare la fragile vittima degli equivoci, dello stalking, del sistema giudiziario, delle apparenze. C’è una scena in cui piange (oddio, piange: sussulta) rivelando alla moglie il grande trauma del suo passato (di cui lei non s’era mai accorta, da psicanalista attentissima qual è) che fa venir voglia d’altre sessanta puntate, proprio come ci succedeva coi migliori Garko della nostra vita. Con la differenza che, con questa versione del romanzone d’appendice, puoi darti il tono di chi guarda la tv di qualità. Sempre laccio emostatico è, ma portato come un accessorio di Prada.