Quando ho preso casa nell’Upper East Side, ho subito notato un albero sul marciapiede davanti, completamente coperto di oggetti strani, legati ai rami, o sparsi e piantati nella sua aiuola, appiccicati al tronco. Spille, bamboline, bandiere scout, magneti, giocattoli, nastri di ogni genere, tessere di un campeggio estivo, gioielli, vestitini da bambina, guanti, un bastoncino da sci, una ruota di bicicletta. Mi ha ricordato i titoli di testa del film Il Buio Oltre La Siepe. In bianco e nero, con il suono di una bambina che canticchia, si vede una scatola con dentro un orologio, dei pastelli, delle biglie, due figure di sapone in miniatura fatti dal vicino Boo, che all’inizio sembra spaventoso, ma poi li aiuterà; oggetti che Scout e il fratello Jem scoprono ogni giorno nel buco di un albero.
Un’amica conosciuta nei primi giorni del college era venuta a vedere l’appartamento vuoto: l’avevo incontrata in una stanza piena di divani strampalati, al settimo piano della mia scuola, una stanza che era diventata il quartiere degli sceneggiatori, dove c’erano le nostre caselle della posta, dove gli insegnanti lasciavano i nostri scritti coi voti, dove il tempo non esisteva se non in storie inventate, scandite da tre atti aristotelici e mondi immaginari che forse ci permettono di stupirci meno del 2020.
Quella ragazza mi aveva portato un mazzo di fiori, una barretta di cioccolato e una bottiglia di vino per celebrare la nuova casa. I muri facevano da eco, senza mobili, nelle grandi stanze ed entrava una luce accecante, la stessa che ogni giorno illumina il grande letto riflettendo le foglie degli alberi sul soffitto con ombre che si muovono, come in una casa di campagna.
Pochi mesi dopo c’era stato l’uragano Sandy, e con metà Manhattan che aveva perso l’elettricità per dieci giorni – dieci lunghi giorni di buio, sotto la 23esima strada, di alberi per strada e l’acqua fino al terzo piano – io che stavo al quarto, sulla 74esima e dopo un solo giorno avevo l’elettricità, avevo aperto la porta a rifugiati di vario genere. Avevamo visto quell’esplosione verde nel cielo, della centrale elettrica della Con Edison, avevamo legato cuscini alle finestre, e forse brilli di quella bottiglia di vino portata per l’acquisto della casa, forse incoscienti, ci eravamo divertiti in quell’anomalia eccezionale. Ovviamente eravamo preoccupati, dalle case spazzate via alle Rockaways, palafitte sul mare dove tanti altri oggetti galleggiavano nell’acqua, da Atlantic City che era stata risucchiata come la sua gemella Atlantide. Un fiume di foto di famiglia, letti, librerie. Eravamo partecipi, ci sentivamo anche al centro di un film nostro, della Storia.
Come su quell’albero strano, le memorie di qualcuno o qualcosa aleggiavano in modo un po’ misterioso.
Alla porta aveva bussato un’amica del Texas che non sapeva nuotare, non si poteva comprare più nulla di utile e aveva portato solo delle luci di Halloween, che mentre l’elettricità saltava ancora ogni tanto anche uptown, erano state utilissime e nient’affatto angoscianti. Anzi, la luce arancione mi ricordava i colori delle vigne e infatti nel frigo c’era solo una marmellata fatta in campagna. Anche se ci avevano detto di prepararci, forse i media erano meno onnipresenti; anche se era il primo momento della nostra vita in cui avremmo visto i supermercati vuoti, la gente in fila per i viveri, eravamo praticamente poco più che teenager e quindi in casa era rimasta solo quella marmellata e andava bene così.
Oggi il frigo invece è pieno, nel 2020, quel senso di responsabilità e la sensazione di poter prevedere tutto, è parte del diventare adulti o forse di un mondo cambiato, ossessivo, sapere che arriva tutto in mezz’ora è strano, bello e malinconico allo stesso tempo. Ho mandato 40 Whatsapp per avere ogni genere di spesa e bene di prima necessità per la quarantena.
Qualche giorno dopo l’uragano, nel 2012, era Halloween. La città era silenziosa e allo stesso tempo sembrava un paesino di campagna senza le macchine e coi bambini che si arrampicavano sugli alberi divelti, tutti travestiti da supereroi.
Ora nel 2020, i bambini sono sempre travestiti, con doppie maschere, si sono riversati di nuovo in una città tutt’altro che deserta e anzi quasi più preparata, un remake, un sequel con meno potenza, a misura loro, a misura nostra, già con il pollice opponibile, come i nostri antenati che imparavano a arrampicarci sugli alberi. Corrono tra tende e capanne bamboo, di legno dei ristoranti che invadono le strade da quando c’è la pandemia, in una fiera di paese, con buon cibo, musica e colori.
Ma torniamo a quell’albero, pieno di oggetti e bambole, che all’uragano aveva resistito perfettamente. Per anni (non mesi, anni) ho pensato che fosse successa qualche tragedia, che fosse una tomba allegra cittadina, un totem. Non so perché. Forse per lo sguardo perplesso di quelli che si fermavano imbarazzati o pensando a quei pali in tutte le città del mondo con ruote di biciclette e fiori, che commemorano incidenti.
Era impossibile non pensarlo: una volta alla settimana vedevo due persone, un uomo e una donna, sessantenni, metodici, appassionati che arrivavano alla stessa ora. Dall’aria triste, anche se trasudavano un passato un po’ hippy alle spalle. Lei coi capelli lunghi grigi e camicie colorate, lui simile a Kris Kristofferson, con lo sguardo diffidente di Peter Fonda. Si avvicinavano all’albero e all’aiuola e sistemavano gli oggetti, potavano l’erba e i rami e si soffermavano pensierosi. Dovevano essere i genitori. E forse allora la bambina scomparsa doveva avere la mia età, vista l’età della coppia. Magari era morta a fine anni 90, e se avevamo la stessa età magari mentre io stavo facendo esattamente lo stesso gioco, o guardando lo stesso film o programma TV, e i genitori seguivano un rito.
Anche in una giornata assolata di agosto, di ritorno dal mare con l’odore di crema e la sabbia nelle scarpe sembrava che ci fosse sempre una bambina fantasma. Avevo cercato su Google, negli archivi di giornali una disgrazia sulla mia strada.
Un giorno ridendo con la mia amica Sam, eravamo annoiate a casa, in quei pomeriggi che sembrano meravigliosi a vent’anni e improvvisamente meno con un lockdown, e avevamo compilato i moduli che ogni anno la città di New York manda nelle case per essere sicuri che non ci siano bambini sotto i dieci anni, perché se ci sono, bisogna avere delle protezioni speciali alle finestre. «Mia madre mi aveva detto che l’avevano fatto dopo che il figlio di Eric Clapton era caduto dalla finestra negli anni 90», avevo commentato. Sam aveva riso, «Anche la mia me lo ripeteva sempre da piccola che la città di New York aveva cambiato le sue leggi per quel bambino e urlava se mi avvicinavo a una finestra, ma forse è un po’ una leggenda da madri ebree appassionate di musica rock».
Forse a quella bambina dell’albero non avevano dedicato una canzone da disco di platino come Tears in Heaven. E forse per lei non avevano cambiato l’intero statuto cittadino, né per lei siamo costretti a lasciare lo shampoo a casa o a toglierci le scarpe all’aeroporto come per i 3000 morti del World Trade Center. Che cosa strana, che si impara dalla Morte e che la Legge si modifichi di conseguenza. Antigone diceva qualcosa di simile ma anche il contrario.
Nel 1911 con la Triangle Shirtwaist Factory nel Village avevamo imparato che le donne che cucivano nella fabbrica (ebree, comuniste, italiane) morte chiuse dentro durante un incendio, sarebbero sopravvissute se le scale dei pompieri fossero state abbastanza alte, e dopo quella tragedia, i pompieri cambiarono quindi la lunghezza delle scale.
Nel 2020 siamo ancora sospesi su questa scala; da un lato cambiare le leggi serve a evitare il rischio, dall’altro non riusciamo a coordinare la vita di ognuno dei paesi del mondo. Ed è più immediato adattare la lunghezza delle scale, che pensare a medicine e test o a regole temporanee.
In realtà quei ‘moduli di Eric Clapton’ rimangono simbolo di una modalità americana che mette le mani avanti, garantendo poi indipendenza. Quando il mondo puntava il dito a come si comportavano i popoli, popoli che alla fine hanno più o meno tutti seguito gli stessi tre atti aristotelici della sceneggiatura, ero sicura che a New York, le regole interiorizzate e non imposte ci sarebbero state, che la città del Village, del CBGB, della frenesia notturna, in realtà aveva da sempre avuto griglie: moduli medici lunghissimi, e anche al Comedy Club o al cinema ci si diverte ma si arriva mezz’ora prima, in fila, gli eventi e le feste non sono sempre alla sera ma al pomeriggio già pre-pandemia.
Ma poi dalle regole imposte alle finestre ne era venuta fuori Tears in Heaven e la creatività era riesplosa e così l’empatia, la vita, perché siamo sempre in un equilibrio di regole interiori e contratti sociali. Soprattutto nei propri quartieri. Ho vissuto nel Village e nel Financial District prima dell’Upper East Side e ogni quartiere ha le sue regole non scritte.
Per anni ho camminato velocissima vicino a quell’albero, come spaventata da quello che potessi scoprire, finché un giorno di primavera, mi sono tolta le cuffie dell’iPhone e come un piccolo investigatore di provincia in un film, come Nancy Drew, una leggendaria ragazzina-detective di libri polverosi anni 60, mi sono avvicinata alla coppia. «Cos’è successo qui…se posso chiedere?».
E siccome cerco sempre di anticipare gli altri, avevo aggiunto subito che mi spiaceva se fosse stata qualche tragedia personale. Loro avevano riso e mi avevano spiegato che no, non era morto nessuno, ma non ero la prima a pensarlo o a fermarli per chiederlo. In realtà raccoglievano tanti oggetti caduti nella neighborhood, nel quartiere come passatempo personale, e certo erano spesso di bambini, perché ovvio, quanti ciucci cadono al giorno? Alcuni erano lì da anni, alcuni cambiavano (in effetti ogni tanto si vedevano dei pettini nuovi, una sciarpa o un bottone che non c’erano prima).
Perché lo facevano? Vivevano sulla 74a strada dai tempi di Lyndon B Johnson e si erano appassionati a quest’idea: forse qualcuno poteva ritrovarli, forse rallegravano quell’albero. Moderni Bouvard e Pécuchet, meticolosi e ossessivi, e allo stesso tempo appena tornati da una gita a Height Ashbury o il Newport Folk Festival con lo zaino in spalla.
E da quel giorno in poi mi fermo sempre, con la curiosità di vedere se c’è qualche oggetto nuovo, se ci sono collegamenti con lo Zeitgeist, con le stagioni, se riconosco qualcosa.
È un invito a rifiutare la noia, la sospensione. Si può abbracciare la tristezza, accettandola, non negandola, ma come mi aveva detto un uomo vestito da pirata a una festa a 11 anni di fronte a un mio sbadiglio «la noia è l’unica cosa che non tollero, se sbadigli a 11 anni è la fine». Magari avevo fame, ma ci ero rimasta di sasso. Non ci si annoia a 11 anni, ma anche a 14 quando si va a un campeggio estivo sul Pacifico, né a 18 quando si va via di casa. E la noia non si combatte con Netflix o con l’evasione, ma anche notando qualcosa di diverso dalla routine di anni.
A New York nell’anno della pandemia e del lockdown, dopo periodi nella natura sapevo che avrei cercato altri alberi nella natura che la compone: parchi, fiumi, mari, spiagge, terrazzi, passeggiate, tutte quelle cose che non si associano a una metropoli.
Bollata come ghost town, come città dei fantasmi da chi forse non osa togliersi le cuffie e chiedere se i fantasmi effettivamente ci sono, può aver inaugurato una fase in cui le persone, anche i giovani, cercano più spazi, ma ha anche risposto creandoli.
Ti annoi con la pandemia, ecco un campo da tennis e da basket in più. Non solo i ristoranti, ma anche i negozi ora possono estendere le loro vetrine al marciapiede, creando un festoso susseguirsi di capanne e bancarelle. di Non sai cosa far fare ai tuoi figli nel lockdown vai sul fiume a vedere le lucciole e le stelle con la coperta in una sera d’agosto, grazie ai programmi dei politici locali, che hanno diviso la città per Zip code, Cap. Quel numero di Cap è essenziale, soprattutto quest’anno. Così come i numeri di telefono dei vicini, mai avuti per anni e improvvisamente nel mio telefono, con cui ci scambiamo foto nei gruppi di Whatsapp.
Le strade si sono riempite, nella maggior parte dei casi con senso di responsabilità, per la vittoria di Biden e abbiamo scoperto la vittoria grazie alle urla dei vicini, alle vibrazioni dei clacson e delle voci allegre dalla finestra, prima ancora che dalle vibrazioni del cellulare.
Il mio distretto (il 76esimo) è particolare, comprende poche vie di Yorkville sull’ East River e due isole: a Roosevelt Island si arriva con la funivia, la funivia, quella da sci, voli sopra i palazzi e sopra l’acqua, sopra la foce e il mare e in pochi minuti atterri in un parco e in zone residenziali. L’altra è disabitata, davanti alla casa del sindaco e a una parte della città con case coloniali del 1600-1700, che sembrano appartenere alla South Carolina. C’è anche un vecchio edificio del 1799, sulla 61esima che sembra una mansion di un ricco inglese un tempo un hotel di nicchia, oggi si direbbe boutique hotel, per chi voleva godersi l’estate a Manhattan. Forse, un po’ come, di questi tempi, alcuni viaggi in aereo in pochi, la neighborhood è quasi più esclusiva, ma non in un senso selettivo ma di un microcosmo, un mondo auto-sufficiente.
«Ma quindi vi occupate tutto l’anno dell’albero?», chiedo. La coppia sorride «Certo». L’ho visto anche coperto di neve, con qualche bandierina e peluche che sbucava sotto la coltre bianca.
La coppia che sistema l’albero mi ricorda i vicini più anziani, nel mio palazzo che è una Coop, palazzi cooperative (immortalate in un musical-parodia geniale con John Mulaney), non in un senso giovanile, alla Berlino alternativa, piuttosto il retaggio di un senso civico di comunità, venti nuclei che si conoscono bene, dai nuovi arrivati a chi ci abita dagli anni 60.
I vicini, la risorsa più grande nel 2020, tra cui anche la mia rappresentante del distretto 76, con un ufficio che fa da info-point della neighborhood. Ti spiegano come avere la carta d’identità di New York, come registrarti al voto. Sapere il nome della responsabile del tuo distretto può farti ottenere le vaccinazioni gratis per l’influenza e anche i tamponi per la Covid, seguire i casi attorno a te, nonostante i noti problemi della sanità americana.
New York è anche isolamento, ansia e tanto altro ma sa adattarsi. Non nei gadget che ti proteggono dal virus, mascherine cool e visiere a ogni angolo, ma nell’intrattenimento all’americana inteso come nuove frontiere. Come il cinema che andò in California per cercare la luce tutto il giorno sui set durante la prima pandemia del secolo scorso e sa raccontare il presente, la Tv che continua ancora oggi a non essere passiva, a non pensare che le cose quest’anno non le abbiamo vissute, ma trasformando ogni momento in immaginario. Come i miei amici che sono ogni giorno alle tre di notte sui set a Oyster Bay e mandano foto meravigliose dell’alba e fanno tamponi ogni mattina.
«Apro l’I-phone e vedo che la città si prepara alla guerra civile, apro la finestra e vedo un banchetto di frutta». Una donna dell’Ecuador nel Bronx, non nella privilegiata Upper East Side mi dice che va in canoa tutti i weekend con i figli da quest’anno.
Dopo l’11 settembre Jonathan Safran Foer aveva trasformato la ricerca di una chiave e di un padre scomparso in una caccia al tesoro e in questi giorni questa è la sensazione che percepisco. Si è perso qualche ristorante e negozio, il turismo, le mie eclairs preferite, il diner dove ho mangiato la torta più buona alle 2 di notte dopo un comedy show, ma ci sono ancora i libri nelle case, l’acqua che riluccica dappertutto, le fughe verso le vigne, il sidro, dimensioni enormi, strade più grandi, le Catskills, Long Island. In questa small town, ci sono ancora i mercati, la gente si mette in coda più distante,ma i bambini vendono meloni in maglietta anche a novembre. La New York di Wall Street e della vita isterica ora sembra essere tornata al mondo di A Tree Grows in Brooklyn. Sicuramente anche sporco, pericoloso, difficile, ma fatto di tanti villaggi.
La mia generazione pagherà le conseguenze di quest’anno e forse il prossimo tutta la vita, ma l’intensità della vita, il proprio immaginario, l’entusiasmo non sono banalmente ottimismo. Non significa vedere il mondo in positivo, ma viverlo con pathos.
C’è politica locale e nazionale, c’è New York, una sanctuary city. I discorsi sull’America con la A maiuscola che passeranno se un giorno forse qualcuno si inoltrerà in un cafè folk in Tennessee e sentirà le stesse parole di De Andrè. O ti entra nel sangue nella prima adolescenza, oppure rimarrà solo il più grande argomento da bar colto, l’amico che tutti pensano di conoscere ma solo in superficie.
Guardo gli oggetti attorno all’albero e penso che tutti abbiamo dei keepsakes, che definiscono la nostra neighborhood interiore.
Nella mia libreria in sala ci sono pigne, una piccola statua di Platone, un residuo di qualche inside joke da teenager, una lampada di Aladino presa in Turchia, un sigaro, un elefante thailandese, una moneta con la Walk of Fame di Los Angeles, un orsacchiotto di San Valentino. Lì pochi giorni prima della sua vittoria avevo ritrovato un libro di Joe Biden. Non l’avevo mai letto perché me l’avevano regalato a una serata al Lincoln Center nel 2017 dove ero andata a vedere un incontro tra lui e il mio comico-intellettuale-mentore preferito Stephen Colbert. Una serata meravigliosa, in un teatro, ora chiuso. Certo abbiamo gli spettacoli in cortile, con futuri comici e musicisti, ma mancano quelle notti sugli spalti, vestiti eleganti, o quei teatri black box del college dove l’amico aveva invitato parenti sconvolti dal Kentucky che lo vedevano immerso in scene d’amore o vestito da Rocky Horror Picture Show.
Si parla della nostalgia del mondo di prima, delle cose che facevamo, della Libertà, del viaggio, di chi segue e chi non segue le regole, una divisione che qui percepisco solo in alcune sfere politiche, più simboliche come il Vietnam e Nixon. Non ci sono auto-certificazioni, non ci sono forse neanche risposte, né c’erano nei mesi duri, ma ci sono modi di adattarsi alla realtà presente, duty e senso civico. Forse. O perlomeno nel mio ZIP Code, 10021…
Bisogna avere una purpose, tra troppe e poche regole, una duty, un senso civico, un qualcosa che riempie le giornate, un attivismo locale in tutti i sensi della parola: politico, umano, sociale, vissuto.
Biden dice che la duty gli ha dato molto più di un’aspirazione astratta, speranza più della Speranza. «Lo rende nostalgico per il futuro» e ha intriso di questa sensazione gli Stati Uniti.
C’è un signore che da qualche anno raccoglie gioielli e oro per le strade di New York. Nel Diamond District e guadagna quasi 600 dollari alla settimana. È il suo Albero: i suoi giochi sono orecchini con diamanti, pezzi sfuggiti ai mercanti di metalli preziosi sulla 47esima, polvere rimasta depositata da anni di scambi d’oro e argento.
La propria identità collettiva viene più che unicità da esperienze, tesori comuni. Un tempo a New York il 1° Maggio si facevano i traslochi. Solo quel giorno, tutti, per tutta la città. Moving Day. Al college tutti siamo entrati in quel momento in quelle bolle e per quello siamo legati per sempre dallo stesso linguaggio, più potente di qualsiasi lingua.
Nel film Big Fish il protagonista entra per sbaglio nella città di Spectre Alabama, appena ventenne e viene completamente assorbito da questa comunità di vicini sospesa nel tempo, una bolla magica con una ragazzina magnetica, qualcosa lo tiene lì. Quando ci torna anni dopo è una città fantasma, e forse è l’età o la tua percezione del mondo che ti fanno vedere città fantasma.
Sentirsi al centro della Storia non vuol vedere il bicchiere mezzo pieno, ma è un riconnettersi alle difficoltà del passato, a una Memoria, a quell’albero e agli oggetti lasciati dai vicini. Esiste la tua narrativa, libera dalla politica, dall’economia, nel cercare quei gioielli. «Quando passeranno le elezioni, la pandemia i tuoi vicini saranno ancora i tuoi vicini – dice un post che gira tra le case, e online – Sono le città più grandi nelle contee più piccole, e le realtà più piccole nelle città più grandi a rendere gli Stati Uniti purple, né rossi né blu. Solo quando Biden vince uno stato come la Georgia ci si accorge del lavoro locale di politico come Stacy Abrams o l’impatto degli studios hollywoodiani di Tyler Perry sulla popolazione locale, che non si è più sentita periferica rispetto a Los Angeles».
Con la pandemia e queste elezioni storiche ondeggiamo tra il non entrare nel panico, festeggiare non avere più la sicurezza di sopravvivere a un’influenza, o cerchiamo di sdrammatizzare oppure esageriamo. E intanto non ci sono e forse non ci saranno mai memoriali per i morti della Covid: di molti non sapremo mai i nomi, come non ci sono per la Spagnola.
Come in quelle lezioni di cinema su quei divani sporchi, servono oggetti che portino l’eroe a vedersi parte di un arco più grande, nel bene e nel male. Anche in quest’anno da fantascienza.
Qualche sistema che ti protegge come le finestre di Eric Clapton, qualcuno che faccia da magnete, una rete di supporto attorno a te, nuovi spazi, memorie collettive appese a un albero, di Vivi, non di Morti.
Creare memoria, pensare che questo non è un anno che non c’è stato, non è solo l’attesa di qualcosa che non abbiamo.
Forse non è un caso che in molti, me inclusa, vedessero una tragedia in guanti e ciucci appesi a dei rami, non perché siamo pessimisti, ma perché i ricordi, come i frame di un film non hanno senso isolati, devono trasportare universi come le eliche del Dna. E il pessimismo non è più realistico, come dimostra quell’albero.
C’è la frase di Atticus nel Buio oltre la Siepe, che dice che non capirai mai il mondo se non lo vedi dagli occhi degli altri, che spazza via ore su internet e proiezioni, c’è la bottiglia di vino e la marmellata, che ci rendevano impreparati, ma forse più allegri. Ci sono le città che appaiono fantasma a chi ha già vissuto e non a chi deve ancora vivere, come Spectre.
È il giorno dei Morti, Halloween, come il momento della rinascita tra un uragano e una pandemia, e il bisogno di fermarsi a quell’albero, davanti a quella nostalgia per il Futuro.