«Joe Biden è uno dei pochi leader mondiali che non abbia insultato». Secondo il Times pare che Boris Johnson abbia scherzato così, a porte chiuse e a scrutinio in corso, di fronte alle mappe elettorali dalle quali iniziava a trasparire una vittoria del candidato democratico in America. Il premier inglese è stato fra i primi a congratularsi pubblicamente con il ticket Biden-Harris: la sua sopravvivenza politica passa anche dalla «relazione speciale» che riuscirà, o meno, a mantenere con gli Stati Uniti. Le premesse non sono buone.
Oggi comincia una settimana decisiva per Downing Street. Sono convocate a Londra le delegazioni che da mesi cercano di chiudere l’accordo commerciale per il dopo-Brexit, prima della scadenza dell’anno di transizione. Sempre più vicina. Un «accordo a portata di mano», secondo l’ultima giravolta del premier conservatore che nemmeno un mese fa aveva imboccato la strada del no deal. Il sospetto è che l’esito delle presidenziali abbia alterato la sua strategia.
Prime Minister Boris Johnson says he “looks forward” to talking with Joe Biden and Kamala Harris about focusing on climate change and “net zero by 2050”.
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— Sky News (@SkyNews) November 8, 2020
L’ordine di scuderia potrebbe essere rinunciare allo stallo perpetuo, accogliendo alcune richieste dell’Unione europea, per sbloccare i negoziati e mettere al sicuro il trattato di libero scambio prima di affrontare un’altra pratica incandescente. Sempre di commercio si tratta, ma diretto verso l’altra sponda dell’Atlantico: un accordo con gli Stati Uniti.
Rafforzare la «relazione speciale» con le ex colonie era una delle promesse della campagna per il Leave al referendum del 2016. Poteva essere la prima, e finora l’unica, a venir mantenuta. Almeno finché Donald Trump è stato l’inquilino della Casa Bianca. Nella sua visita dell’estate 2019 e all’indomani del trionfo elettorale di Johnson lo scorso dicembre, il tycoon aveva assicurato termini smaccatamente favorevoli. Ma il suo sfratto è imminente.
Con l’amministrazione Biden la musica varierà. Trump era il sovranismo al potere, definiva «competitor» gli alleati europei, senza farsi problemi a colpirli con dazi, e incensava la Brexit al punto da invitarne il patrono Nigel Farage ai comizi della sua campagna per la rielezione. Per l’ex vicepresidente di Obama, invece, la Brexit è un «errore storico». Ha minacciato ritorsioni quando Downing Street ha forzato la mano al parlamento sull’Irlanda del Nord.
Da Biden si attende un riavvicinamento all’Unione europea, verosimilmente con sconti o l’azzeramento delle tariffe protezionistiche del predecessore. È già ufficiale il ritorno negli accordi di Parigi contro il cambiamento climatico. Al contrario, il patto commerciale con il Regno Unito non rientra fra le priorità dei suoi primi cento giorni di mandato.
Con cinismo e realpolitik, Johnson cercherà di allacciare da subito buoni rapporti diplomatici. Ma prima ha una reputazione da ricostruire. Un riposizionamento. Non è un mistero la sintonia anche politica con lo sconfitto. Tanto che Biden ha definito il primo ministro «un clone fisico ed emozionale di Trump». Era il dicembre 2019 e Boris aveva appena conquistato una maggioranza thatcheriana alle urne.
I due non si sono mai incontrati dal vivo. Nel 2016, però, il nome dell’allora sindaco liberal di Londra è arrivato di sicuro alle orecchie di Biden. Dalle colonne del Sun, Johnson criticò la decisione di Barack Obama di spostare un busto di Churchill dallo studio ovale, dettata a suo dire dalla «antipatia ancestrale per l’impero britannico della parte keniota del presidente». Un commento razzista, aggravato dall’aver pescato nel torbido universo simbolico dell’alt-right.
Biden ha la memoria di chi ha attraversato mezzo secolo di storia e politica dalla stanza dei bottoni. La sua «bromance» con Obama è assodata. Almeno sul piano personale, difficilmente perdonerà quelle offese, inaccettabili e basate su notizie false. Sul buonsenso e l’arte del compromesso ha edificato la sua carriera: non lascerà che il passato comprometta la ragion di Stato. Sarà circondato però da uno staff forgiato nell’era di Obama: gente che vede Johnson e Dominic Cummings alla stregua di un Trump e un Bannon di formato ridotto.
Il cambio di bandiera a Washington, insomma, non favorisce Londra. Si spiega così il tempismo nelle congratulazioni (pure telefoniche) di Downing Street, anche perché malgrado le affinità elettive il quadriennio trumpiano non ha lasciato contropartite significative agli inglesi, ma solo nubi di parole. Un banco di prova sarà la lotta al cambiamento climatico: il Regno Unito ospiterà il prossimo G7 e la Climate Change Conference delle Nazioni Unite (COP26) a Glasgow, Scozia.
"History says, don't hope
On this side of the grave.
But then, once in a lifetime
The longed-for tidal wave
Of justice can rise up,
And hope and history rhyme."
– Seamus Heaney pic.twitter.com/7nB1ytYlvm— Joe Biden (@JoeBiden) October 29, 2020
Non a caso, l’ambientalismo è uno dei tratti citati dal primo ministro. Lo stesso discorso definisce gli Stati Uniti «l’alleato più importante». Il futuro passa di nuovo da Belfast, già centrale nel confronto con l’Ue: l’Ulster sarà osservata speciale, dopo gli attriti dell’autunno e con un presidente, cattolico, che delle sue radici irlandesi va fiero tanto da unirsi al cordoglio per John Hume, uno degli artefici degli Accordi del Venerdì Santo del 1988, e recitare una poesia di Seamus Heaney nell’ultimo video della campagna. La Camera dei Lord potrebbe tagliare già questa settimana gli articoli contestati dell’Internal markets bill, per rattoppare la violazione del diritto internazionale.
Happy to be back in London today, redoubling our efforts to reach agreement on the future 🇪🇺🇬🇧 partnership.
3 keys to unlock a deal:
🔑 No 1: Respect of EU autonomy and UK sovereignty, w/ effective governance and enforcement mechanisms between international partners;
(1/2)
— Michel Barnier (@MichelBarnier) November 9, 2020
In attesa che sulla linea fra Downing Street e Washington scorra la prima chiamata, l’ultimo tango a Londra vedrà un appeasement nel braccio di ferro con Bruxelles. I tre nodi, per come li elenca il caponegoziatore della commissione Michel Barnier, sono i soliti: sovranità, concorrenza leale, pesca. Rispetto agli altri round, però, i britannici potrebbero avere fretta. Caldeggeranno un’intesa. Dopo la caduta di Trump, Johnson è più solo. Il Regno Unito rischia di diventare «un paria mondiale», avverte il lord laburista Falconer. Tamponare almeno la falla nei rapporti con l’Ue significherebbe sventare il naufragio diplomatico.
I nuovi equilibri porteranno il Regno Unito a ripensare l’allontanamento dall’Europa? È presto per dirlo. La linea dura finora ha portato al massimo il ripristino dello status quo. A inizio 2021, fuori dal perimetro commerciale dell’Ue, la superpotenza si troverà senza accordi – tutti da rinegoziare, ma Londra non ha fatto in tempo – con ben 15 nazioni. Più dello «stop the count!» di un populista afono, sarà il salto nel buio della Brexit reale.