La ricchezza delle aziende Big Tech negli ultimi anni è cresciuta a ritmi impressionanti. I bilanci di piattaforme online come Amazon e Google, come Apple, Facebook e Twitter hanno visto i numeri moltiplicarsi in tempi rapidissimi.
Con l’arrivo della pandemia la tendenza si è accentuata: molte azioni quotidiane, dal lavoro alla spesa, dalle conversazioni con gli amici allo studio, sono state trasferite online. Questo ha avvantaggiato ulteriormente le società informatiche.
Quel che spaventa di più del mondo Big Tech, però, non sono i fatturati. È il potere politico che queste aziende hanno conquistato nell’ultimo periodo: il vero pericolo non è la distorsione del mercato, ma la minaccia che rappresentano per la democrazia.
L’avvertimento arriva da Foreign Affairs ed è firmato da Francis Fukuyama, Barak Richman e Ashish Goel, membri del programma di lavoro su democrazia e internet della Stanford University.
Più che nella sfera economica, insomma, il vero potere delle grandi aziende del settore informatico va cercato nella loro funzione di controllo sulla circolazione delle informazioni. In un certo senso, spiegano i tre autori, «questi colossi ora dominano la diffusione delle notizie e il coordinamento della mobilitazione politica. E questo crea pericoli per ogni democrazia».
È un potere che nessuna azienda ha mai avuto prima, neanche in situazioni di monopolio come quello che hanno creato: nessuno nella storia ha avuto accesso a informazioni su amici e familiari di un utente, conosce redditi, beni patrimoniali e dettagli intimi sulla vita delle persone.
Quei dati non sono solo un asset da valorizzare in termini di ricchezza puramente economica: sono una fonte di potere politico. «Cosa accadrebbe se uno dei dirigenti di queste grandi aziende fosse mal intenzionato e sfruttasse le informazioni per ricattare un pubblico ufficiale? O, peggio ancora, se quelle informazioni private fossero usate in accordo con i poteri del governo? Immaginiamo ad esempio Facebook che collabora con un dipartimento di giustizia particolarmente “politicizzato”».
L’immagine usata da Fukuyama, Richman e Goel per descrivere questa condizione è quella di una pistola carica appoggiata sul tavolo: non è detto che chi sta dall’altro lato decida di prenderla e premere il grilletto. Ma bisogna chiedersi se «una democrazia possa permettere che ci sia una pistola carica sul tavolo».
Il turning point che ha fatto capire l’entità del potere detenuto dalle grandi aziende è stato probabilmente il 2016, l’anno dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, ma anche della vittoria di Brexit in Regno Unito: lo spazio di discussione fornito da alcune piattaforme aveva consentito la diffusione deliberata di notizie false e delle teorie del complotto, portando così a una polarizzazione del dibattito politico.
Tutto questo è stato possibile grazie alle filter bubble – le bolle create dagli algoritmi – che propongono agli utenti solo informazioni a loro affini, facendo da amplificatore per alcune notizie e da ostacolo per altre. «Il timore è che le piattaforme abbiano accumulato così tanto potere da arrivare a influenzare un’elezione, più o meno deliberatamente», scrivono i tre autori.
Da quel momento qualcosa si è mosso: è stato chiesto ai proprietari delle piattaforme online di intervenire e assumersi maggiore responsabilità – Twitter ad esempio ha bollato come fuorvianti alcune frasi di Trump – ma un approccio di questo tipo non è sostenibile sul lungo periodo.
«Questo schema – si legge nell’articolo – elude il vero problema che pone un potere simile: qualsiasi soluzione efficace passa da una sua limitazione. Inoltre bisogna chiedersi se una scelta arbitraria possa essere in qualche modo equa: i democratici temono la manipolazione dei dati informatici da parte di estremisti stranieri e non; molti conservatori si sono lamentati del fatto che a gestire le piattaforme online siano persone solitamente molto progressiste, come Jeff Bezos, Mark Zuckerberg o Jack Dorsey».
Nonostante una consapevolezza quasi unanime sui rischi che comportano le Big Tech, le armi a disposizione delle democrazie per rispondere a quelle minacce sono poche o sono spuntate: limitare troppo la libertà di espressione non è un’opzione percorribile, così come incentivare una maggior concorrenza per queste aziende potrebbe non essere sufficiente. Allora Fukuyama, Richman e Goel propongono una soluzione che definiscono promettente, ma che fin qui ha ricevuto poca attenzione: il middleware, cioè un software che faccia da intermediario tra una piattaforma online e i suoi contenuti.
L’aggiunta del middleware permetterebbe agli utenti di scegliere come vogliono che siano filtrate le informazioni. «I middleware possono essere usati in più modi, e ogni fornitore dovrebbe essere trasparente circa la sua offerta in modo da far agli utenti di scegliere il servizio che preferiscono. Le notizie e i post popolari di personaggi politici su un social network potrebbero semplicemente essere affiancati da etichette come “fuorviante”, “non verificato” e “non contestualizzato”.
Un middleware più invadente invece potrebbe arrivare a modificare l’aspetto del feed su una piattaforma, come ad esempio gli elenchi di prodotti su Amazon, gli annunci su Facebook, i risultati di una ricerca su Google o i video correlati su YouTube».
Il primo interrogativo su questa strategia riguarda il trasferimento di potere dalle grandi aziende ai fornitori di middleware, che potrebbero a loro volta manipolare le informazioni: se venisse concesso loro troppo potere potrebbero manipolare i feed a piacimento; se, al contrario, ne avessero troppo poco, i middleware avrebbero una semplice funzione di filtro supplementare che non produrrebbe grossi risultati. «L’approccio migliore sta da qualche parte nel mezzo, ma indipendentemente da dove si traccia la linea diventa necessario l’intervento dei governi a fare da garanti».
Un altro interrogativo va posto sul modello di business. I tre autori ipotizzano di formare un mercato che proceda per accordi preventivi sulla condivisione dei ricavi pubblicitari tra Big Tech e fornitori di middleware. «Accordi – scrivono – che in ogni caso dovrebbero essere supervisionati dal governo: è logico attendersi che le grandi aziende come Facebook e Amazon siano restie alla condivisione delle entrate derivanti da pubblicità».
Resta da capire se l’adozione di questa strategia porti una ulteriore frammentazione dell’informazione, con la conseguente polarizzazione delle idee e delle posizioni politiche: «Gli scettici potrebbero sostenere che adottare i middleware rafforzi le filter bubble: se è vero che le università inviterebbero i propri studenti a utilizzare middleware che li indirizzino a fonti di informazioni credibili, è anche vero i gruppi di cospirazionisti farebbero l’esatto il contrario. Gli algoritmi su misura andrebbero a frammentare il sistema politico. Ma è un rischio che impallidisce di fronte a quello rappresentato dalla concentrazione di potere delle grandi aziende: la vera grande minaccia di lungo periodo per la democrazia».
L’uso di middleware potrebbe sottrarre un po’ di questo potere, dividerlo e consegnarlo a una pluralità di aziende inserite in un mercato competitivo che permette agli utenti di personalizzare le proprie esperienze online.
Neanche in questo modo si potrebbero eliminare del tutto i discorsi di odio o le teorie del complotto dalle piattaforme online. Ma ne verrebbe limitata la portata e l’efficacia. Come spiegano Fukuyama, Richman e Goel: «Oggi il contenuto che offrono le piattaforme è determinato da algoritmi non trasparenti, generati da programmi di intelligenza artificiale. Con il middleware, gli utenti della piattaforma avrebbero modo di controllarli. Lo farebbero loro in prima persona, non un programma di intelligenza artificiale invisibile che decide cosa possiamo vedere e cosa no».