Leave means LeavePerché Boris Johnson ha cacciato il suo consigliere Dominic Cummings

Il capolavoro del braccio destro del premier resterà la campagna per il Leave nel referendum 2016. Aveva paventato un passo indietro nel 2021, ma il suo regno al numero 10 di Downing Street è finito prima. A maggio la fuga dalla quarantena gli era stata quasi fatale: così s’è ritrovato senza paracadute nell’ultima congiura. La geopolitica (e Biden) hanno fatto il resto

Lapresse

«Non ho mai visto Dominic indossare una cravatta», garantiscono i suoi pochi intimi. Nella sua uscita di scena, dalla porta principale di Downing Street con una poco originale scatola di cartone in mano, Cummings sfoggiava il solito look trasandato. È una notte di metà novembre quando culmina una settimana che è una commedia degli equivoci quanto uno tsunami nella politica inglese. Ideologo della Brexit, la mente che ha organizzato la campagna referendaria per lasciare l’Unione europea nel referendum 2016, stratega ombra del Partito conservatore di cui non ha mai preso la tessera, insieme a lui tramonta la fazione più eurofobica che aveva spadroneggiato nel governo britannico. Lo sfratto ha un valore simbolico incalcolabile, ma non cancella un’eredità tossica né i danni di un sovranista atipico. 

«Un sociopatico», lo scherniscono i detrattori. Attorno a questa nomea fuori dalle righe Cummings ha costruito una reputazione machiavellica, come spin doctor. Era ormai in rotta di collisione con il premier Boris Johnson, che non l’aveva cacciato neppure quando in pieno lockdown – la scorsa primavera – aveva violato l’isolamento guidando per più di 400 chilometri da Londra a Durham, la casa paterna nel Nord dell’Inghilterra. Ha resistito a uno scandalo in un Paese straziato dalla pandemia anche a causa dell’attendismo suicida dell’esecutivo a marzo. Era un sodalizio blindato. Ma ora sono mutati gli equilibri di potere. 

Lo scandalo che ha portato alle dimissioni è recente, ma da mesi si erano create le condizioni per l’addio. Ad accelerare tutto è stata la vittoria di Joe Biden: malgrado gli attriti del passato, Johnson è la terza telefonata del presidente eletto a un leader straniero dopo l’annuncio. Non a caso nei due giorni successivi vengono accompagnati fuori dalla porta di Downing Street prima Lee Cain, il capo delle comunicazioni, poi Cummings. Il blitz del premier Johnson non smantella la lobby dei Brexiteers più duri al governo, ma la decapita dei due nomi più in vista. Il presidente eletto è l’uomo più potente dell’Occidente, ma gli analisti britannici attribuiscono la regia a Carrie Symonds, la fidanzata del primo ministro. 

Il trio era ritratto nella foto più iconica del trionfo alle urne di dicembre quella dove Boris esulta in una posa vagamente pugilistica. Alle sue spalle c’è Cummings, che regge l’immancabile laptop. Sebbene la stampa britannica ironizzi sull’influenza – innegabile – di Symonds sul compagno, non c’entrano i pillow talks (le chiacchiere a letto fra partner). Astro nascente del conservatorismo, classe 1988, lavora nella campagna che nel 2010 incoronerà Johnson sindaco di Londra, fino a diventare la direttrice della comunicazione dei Tories. Nella guerra di palazzo, ha avuto la meglio su Cummings.

A fine ottobre, Cain è considerato il favorito per una promozione a capo di gabinetto, ma non scalpita. Nel rimpasto di governo di febbraio, un nome di rango come l’allora ministro delle finanze Sajid Javid è stato silurato per aver declinato lo stesso ruolo, che lo avrebbe portato nell’orbita di Cummings. In autunno è entrata una nuova pedina: su input di Symonds, l’addetta stampa di Downing Street diventa Allegra Stratton. Ex giornalista televisiva della BBC, ha ristrutturato brillantemente l’immagine di Rishi Sunak (il rimpiazzo di Javid allo Scacchiere). Rifiuta di dipendere da Cain, che si oppone alla nomina e tenta di sabotarla. Invano. È assunta per rilanciare Johnson, riferirà solo a lui. È l’inizio delle ostilità.

Sul vice si apre un altro duello. Cain insiste per piazzare un nome gradito, Stratton minaccia le dimissioni. Alla vigilia della tempesta perfetta, è il 4 novembre, per appianare il conflitto Johnson incontra Stratton alla presenza della compagna a Chequers, una residenza di campagna a nord-ovest della capitale. In quest’occasione, il premier annuncia il piano di trasferire Cain al vertice dello staff. Le due stroncano l’investitura: la comunicazione istituzionale ha fallito, sentenziano, ostacolata anche dal machismo dell’entourage di Cummings. Il veto funzionerà.

Il primo ministro esorta entrambe le parti a restare e «servire la nazione». A Cain è offerto il posto: la voce arriva ai media, non si esclude sia fatta trapelare dagli alleati del diretto interessato. Insorgono ministri e parlamentari: un fedelissimo in quel ruolo chiave cristallizzerebbe il dominio di Cummings. È la resa dei conti contro l’ingombrante consigliere, i cui rapporti con il resto del governo sono logorati da tempo. Accusata del «leak» alla stampa, la congrega di Brexiteers esce compromessa dalla faida. Il giro di nomine viene congelato, gli sconfitti pianificano di andarsene a Natale. 

Lo stallo è insostenibile: venerdì scorso, Johnson li convoca entrambi e li licenzia. Non perdona loro il doppiogiochismo della campagna diffamatoria orchestrata contro Symonds. Per esempio, il Daily Mail scade nel sessismo: «Da Enrico VIII non c’era una tale discussione pubblica sull’influenza di consorti e consiglieri – scrive il tabloid, avverso all’agenda più progressista della donna –. Al centro c’è Carrie Symonds, paragonata da alcuni ad Anna Bolena: capricciosa, esigente e nevrotica. In altre parole, è la vecchia storia: cherchez la femme». 

La base elettorale è spaccata. Si sprecano pronostici sull’inizio di una nuova era. Una lettura cinica della crisi è che gli architetti del divorzio dall’Unione europea hanno abbandonato la nave prima di un naufragio chiamato no deal. Siamo nella settimana decisiva dei bilaterali. Oltre queste «tre cene e un funerale politico», come ha scolpito il Times, si intravede un cambio di rotta, però il lascito politico della frangia oltranzista è vivo e vegeto, anche con i suoi ideologi fuori gioco. Boris respinge compromessi con Bruxelles e il suo ministro dell’Ambiente fa mettere agli atti che «l’allontanamento di Cummings non avrà conseguenze sui negoziati». Linea dura, a parole. 

Su quel programma Johnson è stato eletto. Quando, come sotto Theresa May, i conservatori hanno sterzato sulla Brexit, sono crollati. Alle elezioni europee del maggio 2019, persino dai verdi, mentre trionfò con 5,2 milioni di voti un redivivo Nigel Farage, alla guida di un partito appena nato. Una parte dell’opinione pubblica inglese è ferma su quelle posizioni e non digerirebbe una svolta troppo liberal. Era Cummings l’artefice del «riscatto», pochi mesi dopo: ha coniato il mantra «Get Brexit Done» e rifinito la strategia che ha permesso di strappare ai laburisti i loro ex fortini. Per questo il premier non poteva farne a meno, né liberarsi dalla sua influenza. 

Senza di lui, Boris perderà la connessione al blocco su cui ha costruito le sue fortune politiche? Non sarebbe il primo riposizionamento di una carriera senza scrupoli né dogmi. Al di fuori del dossier europeo, però, «Dom» ha inciso poco. Anzi, la fama di «genio oscuro» poggia su una serie di mistificazioni. Studi a Oxford, va in Russia per lavorare a una linea aerea che conterà un solo volo. Tornato nel Regno Unito, nel 2004 ha la prima intuizione: un elefante gonfiabile, simbolo dello spreco di denaro statale per un’assemblea regionale. È l’antenato del bus che favoleggiava la Brexit potesse fruttare 350 milioni di sterline alla settimana da destinare all’NHS. 

Il suo capolavoro resterà la campagna per il Leave, basata sui dati, la profilazione di massa e una campagna social spregiudicata su Facebook. Una marea di menzogne. A inizio anno – sullo stesso blog dove reclutava «disadattati e pazzoidi», testuale, per Downing Street o accusava con inquietante anticipo la Cina di future pandemie – aveva paventato un passo indietro nel 2021, ma il suo regno è finito prima. La fuga dalla quarantena gli era stata quasi fatale: così s’è ritrovato senza paracadute nell’ultima congiura. La geopolitica ha fatto il resto. «Take back control!», recitava il suo slogan più riuscito. Non stavolta. Leave means leave

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