Non è un mistero che la lotta al cambiamento climatico possa avere secondi fini. Spesso, infatti, la decisione di ridurre le emissioni porta vantaggi che fanno passare la questione ambientale in secondo piano. Come nel caso delle recenti mosse della Cina. A settembre Xi Jinping parlando all’assemblea generale dell’Onu ha annunciato che il suo Paese diventerà carbon neutral entro il 2060. Quest’uscita di fatto può avere implicazioni al di là della tematica ambientale.
Prima di analizzare ragioni e conseguenze della svolta, serve qualche numero per capire la portata dell’annuncio. La Cina è il più grande consumatore di energia al mondo, nonché il più grande importatore. Secondo i dati dell’International Energy Agency aggiornati al 2018, nella Repubblica popolare circa il 60% dell’approvvigionamento energetico derivava dal carbone. Allo stesso tempo il fossile pesava sull’80% delle emissioni di Co2 del Paese. Per avere un’idea complessiva basti pensare che, a livello globale, la Cina è responsabile del 28% delle emissioni contro il 15% degli Usa e il 10% circa dell’Europa.
Con questi numeri è chiaro quanto le decisioni di Pechino siano fondamentali sul tema. Il punto meno chiaro è come saranno implementate. Le parole di Xi hanno lasciato più interrogativi che risposte. Il termine “carbon neutrality” non implica che un paese elimini tutte le sue emissioni di carbonio, ma che le riduca quanto più possibile e le compensi in altri modi, che permettano la cattura e lo stoccaggio della CO2 dall’atmosfera. Questa ambiguità apre le porte a diverse questioni sulla fattibilità della promessa cinese. Semplificando potremmo individuare due strade per interpretare la svolta di Xi e in entrambe la variabile climatica ne esce ridimensionata se non distorta.
Una mossa per uscire dall’isolamento
Nel primo caso possiamo leggere le parole di Xi come una mossa politica e comunicativa che mette in dubbio la buona fede cinese. Per Luca Franza, Responsabile del Programma Energia, Clima e Risorse dell’Istituto Affari Internazionali, l’annuncio è arrivato in un momento di isolamento crescente per Pechino: «Se emerge che la mossa di Xi è solo motivata da calcoli contingenti per ridurre l’isolamento cinese», ha spiegato a Linkiesta, «questo annuncio non è una grande notizia per il clima. Restano forti dubbi sulla capacità cinese di abbattere le emissioni, vista la costruzione di nuove centrali a carbone e pacchetti di stimolo post-Covid decisamente “brown”».
Per Alessia Amighini, co-head dell’Asia Centre dell’Ispi, quello di Xi non è stato un annuncio dirompente: «c’è una sorta di regolarità nel comportamento cinese, cioè annunciare qualcosa che dal punto di vista terminologico sembra avere un significato preciso, ma che invece i cinesi intendono in tutt’altro modo. Quindi sarei un po’ dubbiosa su cosa intendano per “carbon neutral”». Una delle perplessità maggiori riguarda il nodo del carbone: «Oggi l’utilizzo del carbone come fonte di energia è ancora in aumento in Cina», spiega ancora Amighini, «l’impegno agli accordi di Parigi è solo quello di ridurre il tasso di crescita dell’utilizzo del carbone, non di ridurre il suo utilizzo».
Nel 2020 infatti la Cina ha approvato una serie di piani per nuovi impianti a carbone al ritmo più elevato dal 2015. Secondo uno studio del Global Energy Monitor e del Center for Research on Energy and Clean Air, oggi ci sono impianti in costruzione per 97,8 gigawatt di potenza ai quali se ne aggiungerebbero altri pianificati da 151gigawatt.
Questi numeri mostrano una direzione completamente opposta a quella che sarebbe necessaria. Stando a un dossier della società di consulenza Wood Mackenzie, per sperare di centrare la neutralità entro 30 anni sarà necessario dimezzare l’utilizzo del carbone. Un percorso quasi impossibile. La stessa Woodmac spiega che questo avrebbe un impatto enorme in termini di perdite di posti di lavoro e costerebbe circa 5 trilioni di dollari. Forse, suggerisce la società, le centrali verranno adeguate con dispositivi per lo stoccaggio del carbonio, uno strumento che, come abbiamo visto, serve per compensare emissioni e non tagliarle.
«Ci sono grosse parti della Cina che vivono grazie al carbone», continua l’analista Ispi. «Se se ne riduce l’uso, queste regioni finiranno col rimanere sguarnite di risorse e dovranno essere mantenute a fondo perduto da Pechino. Cosa che fra l’altro il governo non vuole fare». Secondo Amighini la strada per ridurre il peso del carbone deve per forza di cose passare da altre risorse fossili: «La Cina è piena di carbone, mentre deve importare le altre fonti. E l’origine della Belt and road initiative è tutta qui: la creazione di queste rotte, gasdotti e oleodotti è una strategia per assicurarsi le forniture energetiche. L’energia è infatti al centro di tutta la politica estera cinese».
I limiti dell’elettro-Stato cinese
Possibile quindi che l’azione di Xi sia stata esclusivamente politica e speculativa, magari per provare a rivitalizzare il rapporto con l’Europa molto sensibile sul tema? Se proviamo ad analizzare le promesse al di là degli aspetti contingenti, la decisione apre le porte a conseguenze economiche e geopolitiche più ampie. Per Franza l’uscita rappresenta comunque una novità per Pechino: «finora la narrazione cinese era stata quella di dire che la Cina è un Paese ancora in via di sviluppo che si sta industrializzando. Con questo annuncio però il Paese si è assunto la propria responsabilità quale leader economico e politico globale».
Intanto però le emissioni continueranno a crescere. Nei piani di Pechino c’è infatti l’obiettivo di arrivare al picco entro il 2030 per poi iniziare a decrescere. Uno degli strumenti per rispettare la promessa potrebbe essere quello delle energie rinnovabili. Lo scorso anno, un’analisi realizzata dall’Energy Transitions Commission e dal Rocky Mountain Institute ha provato a calcolare come dovrebbe variare la produzione di energia per raggiungere la neutralità entro il 2050. Lo scenario vedrebbe un drastico ribaltamento delle proporzioni, con un passaggio dell’energia elettrica prodotta da forti termiche (delle quali il 90% fa capo al carbone) dal 70 al 7%. Il salto avverrebbe grazie a solare ed eolico che dovrebbero poi costituire il 70% della produzione energetica. A patto però che le capacità aumentino di almeno 15 volte, con investimenti doppi nel solare e tripli o quadrupli nell’eolico.
Numeri alla mano, è chiaro che la questione ambientale è solo una piccola parte. Come ha spiegato The Diplomat, il fatto di insistere sulle rinnovabili avrebbe dei riflessi su tutta la filiera. L’eventuale aumento della produzione di rinnovabili si rifletterebbe sul consumo di minerali e terre rare. Queste ultime sono presenti in grande quantità in Cina, che infatti detiene il 37% delle riserve globali. In più aumenterebbero anche i consumi di litio e cobalto. Componenti preziosi che hanno spinto Pechino all’estero, come dimostrano le attività di Tianqi Lithium in Sud America per il litio e di altre aziende cinesi nella Rep. democratica del Congo per il cobalto.
Alcuni analisti hanno ipotizzato una competizione globale per questi materiali in futuro. Ma in realtà, lo scenario resterebbe remoto, spiega Franza: «Per me è difficile immaginare una grande concentrazione di mercato su questi minerali perché non sapremo come sarà il quadro fra 20-30 anni. Storicamente abbiamo visto che mano mano che i minerali sono diventati importanti, più attori hanno iniziato a cercarli ampliando l’orizzonte delle riserve».
Lo studio del Rocky Mountain Institute vedrebbe la Cina come leader nel mondo elettrico, in proiezione quasi un elettro-Stato con un grosso margine per l’autonomia energetica. Ma è possibile un tale spazio di autonomia? Difficile. Per l’esperto al momento non ci sono le condizioni per avere un sistema energetico totalmente elettrico. Troppi i limiti, dallo stoccaggio, all’intermittenza delle risorse come vento e sole: «Le rinnovabili sicuramente saranno un pilastro delle strategie di decarbonizzazione cinesi. Tra l’altro al Cina ha anche un interesse geoeconomico nel coltivarle perché ha già raggiunto una posizione di leadership», ma sarà impossibile muovere l’economia solo con quel tipo di energia. «Credo che nessun Paese possa diventare un elettro-stato. Anche l’Europa si è resa conto che con l’elettricità si può arrivare solo fino a un certo punto. Negli scenari più ottimistici di Eurelectric si vede un’elettrificazione al 55-60%».
Nonostante questo, l’idea del governo cinese è quella di continuare a spingere il settore. Non a caso, in alcuni pacchetti di stimoli contenuti nelle misure per rilanciare l’economia post-pandemia, c’erano elementi per le rinnovabili. Oltre al governo di Pechino, altri soggetti hanno lanciato segnali. La compagnia petrolifera nazionale PetroChina ha annunciato emissioni prossime allo zero entro il 2050, mentre la banca centrale cinese ha parlato di necessità di un sistema finanziario “più verde”. Il 12 ottobre Reuters riportava la notizia della pubblicazione di uno studio realizzato da una serie di think tank vicini al governo cinese che evidenziava la necessità di tagliare le emissioni di carbonio e l’uso del carbone già nei prossimi 5 anni.
Le incognite del Plenum
Tra il 26 e 29 ottobre si è tenuto il quinto Plenum del 19° Comitato centrale del Partito comunista che ha disegnato il piano quinquennale per l’economia cinese fino al 2025. A margine delle grandi discussioni sulla transizione del modello di sviluppo c’è stato spazio anche per il clima. Nel comunicato diffuso dall’agenzia Xinhua al termine dei lavori si legge che tra gli obiettivi «saranno promosse modalità di vita e di lavoro rispettose dell’ambiente per coprire tutti i settori della società. Le emissioni di carbonio diminuiranno costantemente dopo aver raggiunto un picco». Quindi indicazioni ancora vaghe.
Per il momento l’annuncio di Xi ha già avuto qualche piccolo effetto. Da un lato, è stato accolto con favore dall’Ue. Mentre dall’altro, ha creato una certa ansia in Australia, che teme ora un diverso clima globale intorno al commercio di beni ad alto contenuto di carbonio che introduca costi elevati per quel tipo di beni. Il Paese fonda parte della sua economia sul carbone e rischia di fronteggiare una possibile fuga di capitali dai combustibili fossili.
Intanto il carbone resta un argomento caldo sull’asse Camberra-Pechino, dato che le autorità cinesi ne hanno bloccato le importazioni. Ufficialmente non ci sono motivazioni, ma molti sono convinti si tratti di una ripicca per la richiesta australiana di un’indagine internazionale sulle responsabilità cinesi nella diffusione della pandemia. Chiaramente è presto per le speculazioni, ma è evidente come l’import di materie fossili sarà sempre più terreno di scontro geopolitico, soprattutto se la Cina inizierà a tagliare i consumi.