La fabbrica del mondoLa svolta epocale della Cina che ridisegna la sua economia puntando sul mercato interno

Dopo decenni da leader nella manifattura a basso costo, Pechino vuole ridurre il peso dell’export e produrre prodotti ad alto valore aggiunto spendibili nel commercio interno. Per farlo però deve attivare un processo di forte innovazione e dimostrarsi in grado di assorbire la nuova produzione. Un progetto che avrebbe delle conseguenze a livello globale

NICOLAS ASFOURI / AFP

La fabbrica del mondo si prepara a chiudere i battenti. Negli ultimi 40 anni la Cina ha costruito il suo successo economico sulla capacità di attirare capitali e costruire la più grande struttura manifatturiera a basso costo del mondo votata all’export. Oggi però quel meccanismo si è inceppato. Anzi, Pechino è pronta a mandarlo in soffitta per ridisegnare la sua economia.

Nell’anno della pandemia il presidente Xi Jinping ha ripetuto più volte che il mondo è un posto sempre più turbolento e che la Cina deve mettersi al riparo dagli scossoni. Non è un caso che sia tornato sul tema a metà ottobre durante la visita a Shenzhen. Proprio nella culla della rivoluzione economica voluta da Deng Xiaoping, il presidente cinese ha auspicato che la città diventi ancora una volta il volano del nuovo sviluppo cinese.

«I modelli economici, tecnologici, culturali, di sicurezza e politici – ha detto Xi nel suo intervento – stanno tutti attraversando profondi aggiustamenti e il mondo è entrato in un periodo di turbolenze e trasformazioni». La Cina, ha continuato, si trova in una fase critica del suo sviluppo e per questo è necessario un nuovo modello di crescita.

La vera incognita per tutti è quale sia questo modello. La visita è avvenuta a ridosso di un momento molto importante, il plenum del Comitato centrale del Partito comunista, il diciannovesimo, che tra il 26 e 29 ottobre lavorerà al nuovo piano quinquennale, ma non solo. Sul tavolo ci saranno le riforme economiche da attuare in vista del 2035.

La direzione dell’economia cinese
I progetti del Pcc e soprattutto di Xi Jinping, partono da alcuni temi di fondo: autosufficienza, mercato interno, disaccoppiamento e ridefinizione della manifattura. Per capire prospettive e rischi di questo modello è utile partire proprio dall’ultimo aspetto.

«È corretto dire che ci potrebbe essere una fine relativa della Cina come fabbrica del mondo, ma non una fine della fabbrica Cina e questo è un punto fondamentale», ha spiegato a Linkiesta Filippo Fasulo direttore del Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina. «Quello che cambia è che cosa produce la Cina e sostanzialmente a chi lo vende. Questa è la grossa differenza. L’idea sarebbe quella di produrre prodotti ad alto valore aggiunto e far sì che il mercato interno possa assorbire questa produzione».

Questo cambiamento è contenuto in un principio che Xi sta portando avanti da qualche mese e che è stato ribattezzato come doppia circolazione, «una modalità di immaginare la struttura economica cinese come orientata attraverso due dimensioni, una esterna votata all’interscambio e una interna basata su consumi e innovazione», dice Fasulo.

Dalle riforme di Deng in poi la Cina ha fatto leva soprattutto su quella esterna, grazie a una produzione a basso costo che spingeva le esportazioni. Ora invece l’acceleratore deve andare sul comparto interno. «Oggi l’attenzione cinese punta a ricostituire, ridefinire e riorientare l’economia riducendo il peso della circolazione esterna in favore di quella interna. Per farlo devono aumentare i consumi e in qualche modo deve migliorare anche la qualità della produzione attraverso forte innovazione».

A maggio durante un discorso ad alcuni consiglieri il presidente cinese aveva sottolineato tutte le potenzialità del mercato interno parlando di un possibile bacino di 400 milioni di consumatori. La grande incognita del cambiamento cinese è infatti se il mercato sia pronto.

Per Fasulo i tempi sono maturi: «Ad oggi il mercato interno cinese non assorbe quanto potrebbe e lo si vede dal peso dei consumi rispetto al Pil che in Cina sono attorno al 39-40 per cento mentre nelle economie avanzate è superiore al 66 per cento».

L’eventuale successo della doppia circolazione passa da un grosso cambio di paradigma: «Nella struttura economica attuale c’è ancora un peso molto forte degli investimenti che sono più facilmente controllabili e sono il meccanismo attraverso il quale la Cina è riuscita ad ottenere alti valori di crescita del Pil e questo perché sostanzialmente bastava aumentare la spesa pubblica. Però si tratta di un sistema che non funziona e che era già stato ritenuto non più funzionante almeno dal 2015».

La questione tecnologica
Le potenzialità del mercato interno da sole non bastano per la svolta, servono correttivi e incentivi. È il caso ad esempio del rapporto con le aziende. Come ha sottolineato Simone Pieranni sul Manifesto, il Consiglio di Stato ha pubblicato delle linee guida per aiutare le grosse aziende che esportavano a dirigere i propri flussi verso il mercato interno.

Parallelamente il governo ha varato le prime limitazioni all’export. Nei giorni scorsi è stato approvato un provvedimento per regolare l’esportazione di alcuni beni specifici in base a una serie di criteri ancorati agli interessi cinesi. Una prima mossa che potrebbe essere ampliata nei prossimi mesi in particolare come risposta alle restrizioni statunitensi sul mercato dei chip.

Questo ci porta infatti a parlare di un altro pilastro della doppia circolazione, il miglioramento tecnologico. Come spiegava a Linkiesta l’analista del Merics, Rebecca Arcesati, la battaglia principale riguarda il controllo dei semiconduttori. La Cina ha fame di questa tecnologia e ancora non riesce a soddisfarla internamente. Ogni anno importa circa 300 miliardi di dollari di semiconduttori, una cifra che supera persino il comparto petrolifero.

Per questo gli investimenti nel prossimo quinquennio saranno sempre di più. Secondo la società di consulenza Qichach nel 2020 ben 13 mila imprese cinesi si sono registrate come compagnie di semiconduttori attirate soprattutto dai possibili fondi che Pechino metterà sul piatto probabilmente con il 14esimo piano quinquennale.

L’appoggio sul mercato interno e la ricerca di un predominio tecnologico richiamano altri due temi, quello dell’autonomia e del disaccoppiamento rispetto alle altre economie. Per quanto riguarda il primo, già un anno fa Neil Thomas metteva in luce nelle linee di azione di Xi e del Pcc la centralità del concetto maoista di zili gengsheng, in inglese «self-reliance» e che in italiano potremmo tradurre come «autosufficienza».

Nel 2018 lo stesso presidente cinese sosteneva che l’aumento globale del protezionismo aveva reso più difficile l’accesso alle tecnologie chiave costringendo la Cina a prendere la strada dell’autosufficienza.

Figlio di questa self-reliance è “China Standard 2035“, una sorta di prosecuzione ideale di Made in “China 2025”, il piano che il governo cinese aveva varato nel 2015 per migliorare l’eccellenza tecnologica e nel corso del tempo passato in secondo piano alla luce delle tensioni tecnologiche globali. Con China Standard 2035 Pechino vuole ora provare a dettare la linea sul fronte degli standard, mettendosi in competizione con Stati Uniti ed Europa.

La proiezione verso il 2035 ha a che fare con il complesso tema del disaccoppiamento dell’economia cinese, il cosiddetto decoupling. Complesso perché riguarda soprattutto le reazioni globali nei confronti della Cina. Come ha spiegato al South China Morning Post George Magnus del China Centre dell’Università di Oxford, si andrà verso un allentamento della dipendenza più che con un disaccoppiamento netto.

Verso una regionalizzazione dell’economia
Per Fasulo la questione del decoupling è lunga e delicata e riguarda il complesso rapporto tra interdipendenza e dipendenza che colpisce tutti i partner della Cina. Su questo, spiega, aleggia la «questione della trasformazione della globalizzazione verso la regionalizzazione, un processo che ha all’interno diverse dinamiche non più collegate solo al valore economico ma anche a motivazioni di tipo strategico e ideologico».

La virata economica cinese non avviene infatti nel vuoto ma è inserita all’interno di processi globali iniziati da tempo. Secondo l’analista della Fondazione Italia Cina la data cardine è quella del 2008, anno dello scoppio della crisi economica, il primo momento in cui la Cina prese coscienza di come potesse essere esposta a shock esterni: «Questo elemento si è ulteriormente rafforzato negli ultimi due anni e in tempo di pandemia anche perché gli shock esterni possono derivare non più soltanto da circostanze economiche».

Negli ultimi anni molti Paesi hanno avviato questo distaccamento. Una serie di numeri messi in fila dal Financial Times mostrano il progressivo raffreddamento delle imprese a investire e produrre in Cina. Un aspetto legato alla volontà di molti Paesi di ridisegnare le catene di approvvigionamento.

Le mosse cinesi e il cambiamento della catena del valore riporta al centro l’industria globale e la sua progressiva regionalizzazione. E questo fa gioco alla stessa Cina: «Sicuramente – continua l’analista – c’è l’intenzione cinese di aumentare la manifattura nel proprio Paese anche perché hanno bisogno di dare sfogo all’occupazione interna che poi può favorire il miglioramento delle condizioni e quindi alimentare i consumi».

Effetti e limiti delle mosse cinesi
La decisione di Pechino di concentrarsi sulla circolazione interna ha conseguenze anche per l’Europa. Da un lato ha favorito la spinta della Commissione a lavorare sull’autonomia, dall’altro comporterà una ridefinizione delle catena manifatturiera. Queste prospettive, conclude Fasulo, «potrebbero cambiare il modo in cui interagiamo con la Cina, cioè potrebbe venire meno l’idea di produrre qua e di esportare là, quanto piuttosto andare a produrre per il mercato cinese direttamente in Cina». Una prospettiva che molte compagnie stanno considerando.

Pur potendo contare su molti capitali da investire e su un mercato interno maturo, i limiti di questa ridefinizione economica non mancano. Qualche settimana fa, sul Nikkei Asian Review, Yukon Huang e Joshua Levy del Carnegie Endowment for International Peace hanno messo in luce alcuni limiti strutturali che potrebbero limitare la portata delle riforme in vista del 2035.

Uno degli aspetti che la Cina dovrà considerare riguarda la produttività, cioè produrre di più e meglio a parità di fondi spesi. Il problema è che negli ultimi anni l’efficienza degli investimenti non è migliorata. Secondo i calcoli di diversi economisti il rapporto tra capitale e prodotto (cioè il numero di unità di investimento per generale una singola unità di Pil) è andato aumentando passando dai 3,3 punti del 2005 al 6 del 2017.

Per Huang e Levy questo numero andrebbe abbassato ma la battaglia per l’autosufficienza tecnologica rischia di complicare le cose dato che gli investimenti in questi settori non avrebbero rendimenti considerevoli nel breve periodo.

L’altra grande questione su cui il governo cinese dovrà lavorare riguarda le limitate performance delle imprese statali. Dopo il 2008 queste aziende hanno avuto produttività inferiori a quelle private e oggi il tasso di rendimento delle attività per le società private viaggia intorno al 9 per cento contro il 4 di quelle statali.

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